La “zona” invalicabile che delimita la “stanza”, generata da una qualche catastrofe che le autorità mantengono in quarantena, è la protagonista assoluta di Stalker: il capolavoro di Andrej Tarkovskij.
La “zona” incarna, senza nessuna retorica, il mito della frontiera che fu d’Ulisse e dei viandanti oltre il Colorado: la soglia che separa l’ordine dal disordine. Il limes che circondava l’Impero Romano e non il confine fra adiacenti che, nella reciproca alterità, finiscono per riconoscersi anche quando elevano mura Berlinesi. Perché esista la “zona” c’è bisogno di una frontiera, meglio se in armi, ché oltre la frontiera, baluardo di civiltà, è il Chaos.
Della “zona” non è possibile nessuna narrazione ma solo suggestioni: la storia del Porcospino (restando nel film), quella di Scilla o di Billy the Kid (uscendo dal film) quanto la catastrofe di un bambino spiaggiato in Turchia (facendo sul serio). Idee che s’impongono alla coscienza per azione diretta di qualcuno ma non per valutazione esperienziale e, per ciò stesso, sulla “zona” non è edificabile nessuna verità. Intendiamoci: non voglio dire che lo strazio dei corpi nel mediterraneo non sia reale: semplicemente non è la verità e non certo perché lo dico io.
La verità è già saputa, già calcolata e scontata, ma si realizza successivamente: in due parole è qualcosa d’atteso. La realtà, al contrario, è spesso inattesa soprattutto quando i mezzi culturali a disposizione sono scadenti: per dirne una, che la vita sia un crocevia di dolori è stampato nel proemio dell’Odissea ma, i più, stentano a crederci. Non a caso rinunciano volentieri a conoscere le città ed i pensieri degli uomini nella speranza di risparmiarsi dal dolore. Peccato che non funzioni.
Se il sole sorge, sussurravano gli Stoici, allora è giorno ma la verifica del giorno, il passaggio dal consapevole alla verità, s’ottiene solo vagando per le ore fino a che non è dato verificare che “c’è il sole” e quindi che “è giorno”. L’idea astratta di collegare il sole al giorno non è né vera né falsa ma si verifica passando per i dati: dato il sole, ecco il giorno. Ma il dato in sé, nel nostro caso il sole, non significa nulla se non s’include in qualcosa di già narrato. Ed ecco il punto: noi disponiamo della narrazione del Chaos?
Ovviamente no, quanto un imberbe non ha nessuna idea di cosa l’attende con la pubertà né un ragazzo s’intende di senilità. Eppure della senilità quanto della pubertà è dato sapere perché qualcuno, in un qualche momento, le ha fissate in qualche pagina letteraria od in qualche articolo scientifico. Ciò a dire che qualcuno ha organizzato in parole, ha partorito (conceptus), un concetto pronto per essere verificato e, da lì in poi, gravido di conseguenze: “se” questo, “allora” quest’altro.
Del Chaos, poco che se ne sa, è dato questo: il Chaos non è organizzato. Nel Chaos è giorno ma anche notte; il Chaos è uno stato d’eccezione senza regole. Una “zona” entro la quale tutto è possibile quanto arbitrario. Una “zona” bizzarra che può ingoiarti in un attimo od elevarti alla condizione, quella della “stanza”, in cui i desideri si realizzano. Diventare la prossima stella dello spettacolo, il prossimo CT della Nazionale, il prossimo leader politico, la soubrette, il calciatore. Diventare ciò che desideri senza un tracciato ma al prezzo d’una scommessa: “vuoi vedere che a me mi salvano?”