Il 20 marzo 1979, pochi sapevano chi fosse Mino Pecorelli.
Alle 8 della sera, chiusa la redazione di OP (un settimanale lontano dall’edicole e distribuito agli abbonati), l’avvocato Pecorelli scende ad avviare la Citroen CX: prima che il motore faccia un sussulto, viene raggiunto da quattro colpi calibro 7.65, sparati col silenziatore. L’arma del delitto, riconosciuta da Antonio Mancini, apparteneva ad Enrico de Pedis: silenziata artigianalmente. La manifattura del silenziatore, sostiene Mancini, è un marchio di fabbrica: Massimo Carminati. Alle 8 della sera, del 20 marzo di trent’anni fa, pochi sapevano chi fosse il “Nero” nel romanzo di De Cataldo.
Per la cronaca giudiziaria, Carminati non ha mai incontrato Pecorelli: neppure per le Idi di marzo: dell’omicidio Pecorelli, Massimo Carminati, è stato scagionato. Ciò che segue, dunque, non può che essere la cronaca d’un’utopia: quella d’un appuntamento con la Storia di due personaggi, altrimenti, oscuri.
La scena del delitto Pecorelli si compone più di vent’anni prima, subito dopo Yalta. Ciò che rimane dell’Italia, penisola senza Stato, viene assegnata agli Stati Uniti d’America: i quali procedono ad una qualche riorganizzazione Statuale. Nei termini minimi d’un acronimo, le direttrici della neonata Repubblica Italiana, nella mente dei nuovi padroni, si riducono a 5 punti fermi. Cinque “emme” che facilitano la memoria.
La prima “emme” sta per Monarchia e, il 2 Giugno del 1946, le cose sembrano partire col piede sbagliato. Malgrado le ingenti somme investite e l’ombra dei brogli, l’ultimo alito del Vento dell’Est scompiglia le carte. Non che, nel tempo, non si sia posto rimedio ma questa è un’altra storia e ci porterebbe troppo lontano e vicino al Colle.
La seconda “emme” si riferisce ai Monsignori delle gerarchie ecclesiastiche, motore della coscienza “anti-Comunista”, più radicati e capillari dei Carabinieri. Se, ancora, nelle liste elettorali insiste la “quota Papa” c’è un perché. Oggi, almeno il Movimento 5 Stelle, sembra lontano da questa logica mentre la Lega si sta già organizzando.
La terza “emme” è la Marina militare: quella miracolosamente salvata dai Tedeschi (forse perché già oggetto di trattativa), fedele ai Savoia e non compromessa col Fascismo. L’unica militarmente utile ad una potenza marittima quale l’Oceania di Orwell; quella che, venuta meno l’antagonista Eurasiatica, non poteva che risolversi con la Globalizzazione: non una teoria economica (non lo è mai stata) ma l’egemonia sui mari come strategia militare. Se Putin, appena può, fa affacciare la marina e conquista porti sul Mar Nero sa a cosa mi riferisco. Se il Mar Giallo è il confine più caldo del pianeta, lo si deve alla stessa logica che muove le mani dell’Estasia.
La quarta “emme” è la Massoneria, che aveva già dato buona prova di sé nelle fila Socialiste a cavallo del primo “gran conflitto”: riesumata ad arte, nell’immediato dopoguerra, per limitare le prospettive democratiche del Bel Paese. Massoni dichiarati erano Einaudi, Saragat e Cossiga: Berlusconi, naturalmente, e, secondo Ferruccio De Bortoli, Matteo Renzi. Già! Qualcuno sa, per caso, che fine ha fatto l’ex direttore di Corsera e del Sole? Qualcuno sa come si scala(va) i vertici di Banca Etruria?
L’ultima “emme”, nell’economia di quest’articolo, è sicuramente la più interessante.
Non è vero che importiamo solo Inglesismi: a volte, agli anglofoni, abbiamo noi da insegnare. È il caso dell’ultima “emme”: quella che sta per Mafia. Nel DNA della Repubblica voluta dagli Americani, compare anche questo. Eppure, gli anglofoni, la traduzione letterale l’avrebbero: syndicate non sta per “sindacato” (NDR: union) ma per “mafia”. Ciò non ostante, quando uno Stato non può prescindere (per reggersi o per erogare servizi) dall’organizzazione criminale, la locuzione Inglese non è “Syndicate-State”, “Yakuza-State”, “Solncevskaja-State” o “Narcos-State” ma è “Mafia-State”: reintrodotto in Italiano come STATO-MAFIA. Ecco: Stato-Mafia porta con sé il ricordo dell’alchimia che ha retto l’Italia durante la Guerra Fredda e che stenta a mollare; forse per quel gioco, scoperto da Nietzsche, che porta un fenomeno organizzato ad incrementarsi: a prescindere dal ragionevole. Questa, in soldoni, la Volontà di Potenza.
Mafia Capitale, che non è la capitale della mafia, nasce così: a prescindere dall’epifania della coscienza. Ciò non di meno, il dispositivo della Corte d’Appello che riconosce le tesi di Pignatone, è un evento epocale: prima del ’92, nel Codice Penale, la mafia manco esisteva! Oggi, invece, si riconosce alla mafia quel ruolo istituzionale che portava Andreotti a Palermo come Renzi, e poi Salvini, atterrano a Reggio Calabria per raggiungere la “Piana”. Si fossero mai fermati, cinque minuti almeno, a Riace!
Va bene, direte voi, ma Pecorelli, in tutto questo, cosa c’entra?
Pecorelli, una settimana prima di essere ammazzato, prometteva sconcertanti rivelazioni sul caso Moro. Rivelazioni, inutile precisarlo, che non sono mai state pubblicate: men che meno da OP, il settimanale che “era” di Pecorelli. Quattro colpi di 7.65, in effetti, sono un ottimo bavaglio. Per meritarseli, però, non è sufficiente rappresentare una minaccia: in Italia, come altrove, si muore per vendetta. Mino Pecorelli, un qualche danno, lo doveva aver già fatto. Ma, fra i tanti, quale?
Gli editoriali di OP sono saturi di vaticini: tutti, puntualmente, disinnescati. C’è il memoriale Moro, ci sono le stragi di Stato, gli scandali Italcasse, Lockheed, dei “petroli”; ci sono i servizi “deviati” di Miceli, la P2 e Stay Behind (NDR: conosciuta in Italia per Gladio): c’è di tutto e di più. C’è anche una frase, eredità dei posteri, che nessuno ha disinnescato ancora. Pecorelli si riferisce all’omicidio di Moro proponendolo così: “un modo nuovo di regolare i conti fra i boss della DC”. La “terra di mezzo” di Carminati, processata a Roma, è tutta inscritta in questa frase, vecchia di 30 anni: il “boss”, che s’approssima al regolamento dei conti, s’è già avventurato di tre passi nel delitto.
I fatti acclarati, di contro, sostengono che Massimo Carminati non era all’angolo tra via Tacito e via Orazio: non il 20 marzo del ’79. Dato che Carminati non c’era, non poteva avercelo mandato Giulio Andreotti: mi sembra pacifico! Se non fosse per le foto del cadavere, stenterei a credere che Mimmo Pecorelli sia stato assassinato. Il caso, comunque, è ancora aperto perché i processi, soprattutto alla Mafia, si risolvono sempre con la prova testimoniale di qualche pentito. Pentiti di Mafia, sia chiaro, perché lo Stato, per ora, non segnala nessun pentimento: magari perché non c’è niente di cui pentirsi, chissà. Eppure, se prendiamo per buona la pubblicistica Internazionale, il prototipo dell’Afganistan liberato (come della Russia, della Turchia, Romania, Brasile, Colombia, Ungheria, etc.) è il puntello criminale all’apparato Statale: quello inaugurato in Italia, un’ottantina d’anni fa.
Per conto mio, nel mio spazio utopico, aspetto ancora il primo pentito di Stato. Non so chi sia, perché l’intelligenza non può spingersi a tanto, ma so esattamente quando questo capiterà. Verrà il giorno in cui, ai “trombati” della politica, non verrà riservato un posto in qualche parlamentino Regionale, nessuna poltrona soffice di qualche indispensabile funzione pubblica, comodità più o meno montane. Se prendiamo per buono il sinallagma che lega lo Stato alla Mafia, non possiamo che valutare il pentitismo criminale: che è sempre quello della parte soccombente. La Prima Repubblica s’appoggiava sul proporzionale, la Seconda sui vari soccorsi: “neri”, “rossi”, “azzurri”, verdini. Nessuno, in un modo o nell’altro, veniva costretto a soccombere e, per ciò, a vendicarsi.
Quando finirà questa pace perpetua, qualcuno si pentirà: chiamando altri a rispondere. Fintanto che tutto questo non s’avvera, è ridicolo favoleggiare cambi di regime come se, fra la Prima e l’ennesima Repubblica, ci fosse una qualche soluzione di continuità.
Spiacente ma non ce n’è.