Me lo ricordo ancora, quando la gioia di segnare una rete si liberava a pugni serrati.
Oggi, lo score dei calciatori si riduce ad un teatrino di pose plastiche senza entusiasmo: buone per il merchandising. C’era, una volta, qualcosa di autentico nella corsa folle di Marco Tardelli, che sbatteva i pugni urlando al cielo, dopo aver segnato il secondo goal nella finale mondiale del ’82: come lui, molti altri e nessuno a beneficio delle telecamere. Qualcuno alzava l’indice al cielo, altri saltavano come capretti ed uno, uno solo, si fermava a testa bassa con il pugno teso: Sócrates.
Per esteso, Sócrates, si sarebbe chiamato Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira ma, come nessuno si volgerebbe ad Achille, Aiace, Ettore od Ulisse col cognome, il capitano della nazionale Brasiliana più forte di sempre è stato solo Sócrates. Il vezzo brasiliano di chiamare i calciatori per nome, o col soprannome, ha radici profonde che insistono nella letteratura più di quanto non si creda. Achille, dal “piè veloce”, Ulisse, dall’“ingegno multiforme”, per cui Sócrates è stato il “dottore”: laureato in medicina. Per il resto, nella vulgata popolare, anche Sócrates è stato un eroe guerriero.
Il calcio, quanto il basket, il rugby od il football americano, è uno sport da caserma e la partita si consuma in un campo di battaglia. La Disfida di Barletta, quando s’incontrano Italia e Francia, o la guerra civile (la guerra di Troia) quando il Torino sfida la Juventus. I calciatori come soldati e, per il resto, l’imperativo è vincere. Al giocatore di calcio non è mai stato chiesto di più di tirare calci, vincere ed obbedire. L’esile spazio di libertà del calciatore lievita fra il fischio che interrompe il gioco, per aumentare il punteggio, e quello che ristabilisce l’equilibrio a centrocampo. In quell’istante fuori gioco, il calciatore appartiene solo a sé stesso. Quando Sócrates segnava, si sentiva Tommie Smith a Città del Messico, il 16 Ottobre del ‘68: per questo il pugno teso e la testa riversa in basso.
Sócrates era nato creolo, povero e doveva il nome alla simpatia paterna per l’illustre filosofo: quanto Ronaldo è il frutto della stima genit(ori)ale per Ronald Reagan (sic!). Date le premesse, a Sócrates non restava che protestare: quanto a Ronaldo tocca fare il tamagotchi. Il parallelismo, però, si ferma qui. Se Ronaldo, quale animale domestico, è agevolato da un presente meschino e burocratico, Sócrates alzava i pugni all’interno d’una sceneggiatura Orwelliana: Brazil!
Il Brasile di Sócrates era qualcosina di peggio del meschino e burocratico che sostiene Ronaldo. Dal 1964, il Brasile, era retto da una dittatura militare che nel fútbol aveva trovato l’esempio ed il successo. Avete presente il sorriso bonario e soddisfatto di Pelè? Chi avrebbe mai dubitato che in Brasile, nel 1970, non si stava più che bene? Persino un creolo scuro, molto scuro, aveva da che stare allegro! Così anche l’Argentina del 1978 ed il Cile, se avesse mai vinto qualche cosa. Dopotutto, i calciatori, si prestano benissimo all’abbisogna: bambini cresciuti sotto una campana dorata, stretta dall’amore incondizionato dei tifosi, sorvegliata dagli allenatori che, a loro volta, obbediscono agli ordini superiori delle proprietà. Un fischio e tutti si mettono a correre: Sócrates, no.
Il pugno alzato di Sócrates metteva in discussione proprio questo assunto: quello per cui il calcio è retto dalla gerarchia. Questo sogno lucido, utopico e vincente, è passato alla storia come “Democracia Corinthiana”: Sócrates, il suo capitano.
Nel 1980, Sócrates è il capitano del Corinthians: una delle società sportive di San Paolo. La squadra va male e, come succede in queste occasioni, si provvede all’esonero dell’allenatore: tutto normale. Contestualmente, però, alla presidenza del Corinthians, la cui proprietà è diffusa e non azionaria, viene eletto Valdemar Pires: un progressista. L’aria nuova che spira fra le corde di Pires, allora, si fa sentire e rasenta il geniale. Invece di nominare un allenatore, il presidente del Corinthians si affida ad un giovane sociologo: Adilson Monteiro Alves, rampollo dell’industria, disoccupato, agitatore e già carcerato (sic!). La squadra si terrà in autogestione, “facilitandosi” con l’aiuto di un sociologo: nasce la “democrazia corinziana”.
Nello “spogliatoio”, a cui s’iscrivono di diritto anche i magazzinieri, raccattapalle e massaggiatore, si decide di tutto: come nell’agorà. Si stabiliscono le tattiche, la formazione, gli allenamenti e cosa mangiare per pranzo. Una testa, un voto, e si segue la soluzione maggioritaria. Così facendo, il Corinthians vince il campionato paulista dell’81 e dell’82: ma è solo un dettaglio. La lezione della Democracia Corinthiana è la subordinazione del fine al metodo; per questo il Corinthians scendeva in campo sotto uno striscione: “non importa vincere o perdere ma farlo sempre con democrazia”. È lo scacco della vittoria ad ogni costo: la vittoria col punto esclamativo (“VINCERE!”).
Quanto, questo seme, sia attecchito è dubbio e l’esempio della Democracia Corinthiana, che non aveva precedenti, non ha avuto successori: ma non importa. C’era una volta un uomo chiamato Sócrates, che faceva il calciatore. Un uomo eccezionale a cui non si poteva chiedere di smettere di fumare, di bere e di pensare. Scomparso come voleva lui: “di domenica e col Corinthians campione”. Il 4 dicembre del 2011, il Corinthians si laureava campione del Brasile: …
la domenica in cui, a 57 anni e sazio di vita, moriva Socrate.