Abbiamo deciso di dedicare una rubrica a voi casentinesi; a chi ama questa vallata così tanto da dedicarle una storia, una poesia, un racconto. Brevi o lunghi testi che inseriremo tra i nostri articoli online (o nella rivista) e che contribuiranno a elogiarne la bellezza, così come la cultura, la storia e le figure importanti che l’hanno vissuta e che la vivono ancora. Nomi, luoghi, aneddoti, storie vere o inventate che coloreranno le nostre pagine e doneranno un qualcosa in più alla nostra valle.
Scriveteci, dunque, fateci leggere e apprezzare le vostre parole e noi saremo contenti di pubblicarle.
Iniziamo, oggi, con il racconto, che vi presenteremo diviso in due parti, di un lettore di Casentino Più. Un ragazzo che ha voluto rendere omaggio, con una allegoria, a una figura a lui molto cara e che, la vallata casentinese, ha pianto soltanto pochi mesi fa. Un personaggio che ha contraddistinto la vita culturale di Poppi e del Casentino: l’indimenticabile ex direttore della Biblioteca Rilliana, Alessandro Brezzi. A lui vanno le parole di Alessandro Municchi, suo profondo ammiratore, allievo di vita e, ancor più, amico che lo ricorda con le righe che abbiamo il piacere di farvi leggere.
(Parte 1 di 2)
L’Incavata dei senzavolto
– o “Del successo dei Minimi Sistemi” –
In ricordo d’un milite solitario.
Di Alessandro Municchi
In una distante landa – in epoche faticose e bislacche – stava l’Incavata, curiosa terra posta tra due civili e regali fiumi, due mari generosi e placidi e fatta di solitarie ed antiche colline; foreste al di là della bellezza e del tempo ove regnava un sacro e maestoso silenzio, di strane abbazie fatte d’una magnifica pietra bianca, di torri consunte e solitarie simili a minacciose dita che, malinconicamente, puntavano al firmamento senza avere speranza alcuna di raggiungerlo.
Il popolo che viveva in quella distante landa ben meritava il loco: gente di poche parole, assai diffidente con qualsiasi cosa fosse estranea alla vallata, idea o persona. Non di meno sapeva dimostrarsi fiera e ospitale con i visitatori; come pure implacabile e feroce con quanti ardivano a portare guerre e sconvolgimenti nella loro vita semplice e ritirata.
Fiera del non dover rispondere a nessuno e da nessuno mai dipendere.
O, almeno, di così presumere.
Vari potentati si sono succeduti nel dominio dell’Incavata: principi e conti, granduchi e capitani di popolo; eppur nessuno è mai riuscito a sovvertire e lacerare quanto sta alla base dell’originalità di quella terra.
La storia che voglio raccontarvi ebbe luogo sotto l’illuminatissimo governo d’un certo principe il cui nome, volto, regno ed opera sono ormai dimenticati; considerati come una mera fantasia, il frutto d’un pacifico sogno invernale.
Sulla più maestosa delle colline, posta proprio al centro della valle, s’ergeva altero e solido un fortilizio merlato; un maniero tozzo e spoglio d’ogni eleganza e sontuosità. Non di meno nelle sue aule – per secoli – si sono decisi e sanciti i destini dell’Incavata.
All’interno dell’incastellamento viveva, attorniato da molta altra gente, uno stranissimo personaggio; un uomo che incarnava tutte le originalità del luogo ma, contemporaneamente, ne era estraneo quanto un può essere un alito di vento nell’orrore del Cosmo.
Nessuno, in verità, conosceva il suo vero nome – i più lo chiamavano Alexemonos Debreccio – e gli stessi autoctoni non capivano assolutamente chi in realtà lui fosse: per alcuni egli era il Segretario e Cancelliere del Vicario di Giustizia, utile consigliere e annotatore dell’ufficiale che, di quando in quando, rappresentava il principe in quell’angolo del Paese; altri ancora pensavano fosse un mago o un qualcosa di più sinistro, quasi un cultore di arcane ed ermetiche scienze.
Più semplicemente il nostro uomo si occupava, come del resto i meno creduli già intuivano, delle carte e dei libri dell’ufficiale vicariale.
Oberato di lavoro com’era, Alexemonos se ne stava quasi sempre nell’Arkaryon – il grande complesso che, all’interno del palazzo vicariale, fungeva da cancelleria, tesoreria e biblioteca – assieme al suo unico assistente: un ragazzo d’appena diciotto inverni impacciato e timido, ma anche curioso e indagatore, acuto e attento nell’aiuto che forniva al suo maestro; soprattutto per quanto concerneva la gestione del grande volume cartaceo, delle commissioni di cancelleria e di specifiche funzioni di rappresentanza e delega di certi minori impegni.
I più chiamavano il virgulto, secondo la fonetica allora corrente in quell’angolo di mondo, “Kos”; corruzione e abbreviazione del vero nome: Kostantinos.
In lontano giorno d’ottobre, Kos stava riordinando, come da protocollo, l’incartamento e gli atti della Podesteria, come pure stava preparando l’evasione della corrispondenza ordinaria della Cancelleria. Dentro l’aula solo l’arido fruscio dei documenti di palazzo infrange la quiete tipica del luogo.
Gli occhi slavati del ragazzo non vedevano nulla, nemmeno oltre la piccola bifora gotica fatta di chissà quanti tondi di Venezia incapsulati su di un’elaborata legatura di piombo. Le mani erano sui documenti, ma la mente era, come sovente accadeva, persa nel proprio turbinare, congelata nella fantasia; mai disattenta sul mondo e sulle sue assurdità.
Un raggio di sole ruppe le tetre nuvole autunnali per giocare con i colori di alcuni dei cerchietti in vetro della bifora, in una amena danza; un sorriso strappato ai tristi orbi del giovine. Le mani ancora stavano sull’incartamento quando, senza alcun sospetto, uno alto vociare che giungeva dal chiostro attirò la sua attenzione, pur senza convincerlo dal distogliersi dal lavoro. Solo uno scalpiccio veloce e molesto costrinse Kos in tal senso: passi lunghi e rapidi che facevano, come tantissime altre volte, cigolare alcune vecchie assi del ballatoio adiacente all’Arkaryon.
Le voci al di fuori si fecero decisamente troppo alte.
Kos abbozzerebbe tranquillamente, ma, conformemente alle consegne raccomandategli da Alexemonos, doveva verificare quanto si stava succedendo fuori dal massiccio portone del Tesoro.
Più presto fatto che detto: degli stolidi protonotari di palazzo s’erano messi a querelare su certi diritti e precedenze.
I loro nomi non sono utili né a questa, né a nessun’altra storia.
Dei gelosi cortigiani, intriganti, senza merito, certi solo della loro certezza; base universale della potestà dei mediocri.
Per omnia sæcula sæculorum.
Il ragazzo sospirò, rassegnato com’era a quelle sceneggiate degne d’una pantomima da cicisbei e ruffiani. Non trovava in sé alcuna voglia e tanto meno tempo di confondersi con certi balordi figuri.
Al colmo del parossismo isterico, scoppia definitivo il parapiglia: uno degli imbecilli non trovò di meglio da fare – ancor meno da ponderare – che strappare la cravatta d’uno dei due. In un moto d’idiozia generale, i parassiti si lanciarono in un portentoso moto d’avvinghiamento non dissimile a quello che i meno stupiti possono osservare nel comportamento di certi branchi di lupi o di cani non più troppo avvezzi alla compagnia degli uomini e ai vantaggi della vita domestica; solo che – almeno – quest’ultimi possono invocare l’attenuante del randagismo (volontario o meno)!
Kos roteò gli orbi chiari e sospirò.
Uno dei vice di palazzo s’intromise nella situazione, senza far altro, naturalmente, che renderla ancora più ridicola a chi si trovava tra il chiostro dell’incastellato e il terzo ballatoio.
Solo l’intervento d’un distinto ufficiale di Stato mise fine alla ridicola zuffa, e solo in quel momento Kos s’accorse della presenza di Alexemonos; appoggiato com’era ad una delle basse colonnette che ornavano una piccola scalinata in pietra posta assai in disparte e quasi sempre immersa nell’ombra.
«E allora, ragazzo…», disse Alexemonos, «Non deve averti divertito troppo questa messinscena…»
Solitamente il Cancelliere era ben attento a non lasciar intendere nulla, ma innanzi a Kostantinos non si premurava poi troppo.
Il giovane nuovamente sospirò.
Il capo reclinato si mosse in un moto di palese diniego, mentre gli occhi esprimevano solo disappunto.
Il Cancelliere non fece una grinza; era abituato al silenzioso rimprovero del ragazzo. Semplicemente scrollò le spalle e, seguito da Kos, fece il suo ingresso nell’Arkaryon.
«Prima o poi, Kostantinos, il tuo personalissimo nichilismo ti provocherà qualche bella noia!», uno dei tanti moti amichevoli che Alexemonos rivolgeva al suo pupillo e protégé.
Sarcastico, ma non troppo.
Il tavolo di lavoro del Cancelliere era un vero e proprio capolavoro, frutto della gran maestria di certi famosi ebanisti del continente: un bellissimo scrittoio composto dalla fusione di numerosi elementi, tutti d’un diverso tipo di legno. Non meno degno della policromia caratterizzante dei grandi duomi e delle cattedrali della penisola.
Incisioni. Sculture e piccoli rilievi.
Temi classici e tradizionalismi mitologici.
Sopra il secretaire una mole tutt’altro che disordinata di fogli, carte, mappe e, naturalmente, tomi d’ogni provenienza.
Rilegati bellissimi, fulgidi, rilucenti di gloria e di maestà.
L’eternità esiste, l’immortalità rifugge la miopia della religione.
I libri sono il cammino che conduce al disvelamento; lo specchio sul mondo e, certamente, su di noi tutti.
Aperti e sinceri, o chiusi e corrucciati; pesando su coloro che, pavidi et umili, non si sentono all’altezza della sapienza in essi custodita, protetta.
Le grandi scaffalature dell’ambiente sono ben in linea con il tavolo cancelleresco.
Alte e preziose, cornici supreme della magnificenza e della gloria che sorreggono e contengono.
Per ancora molte ore Alexemonos e il suo aiutante si dedicarono al delicato, faticoso compito legato alle funzioni del Tesoro e della Cancelleria del Gran Vicariato dell’Incavata.
Sulle piccole colonne in pietra serena dell’aula del Tesoro, la luce dell’atro del giorno stava ormai declinando; le ombre degli alberi – antichi cedri e vetusti salici – del giardino signorile leste s’allungavano sulle bifore dell’Arkaryon.
Innanzi a tale ovvietà, il nostro virgulto, immediatamente procedette con l’accensione del peculiare sistema d’illuminazione. Niente candele o simili! Troppo spesso tali luoghi si sono rivelati inermi, sorvolando sulle caratteristiche fisiche e chimiche degli elementi e non volendo di certo rimarcare l’ovvia incuria che troppe volte caratterizzano il genere umano.
Kos stava per rimettersi nel sedile laterale del bureau quando Alexemonos, forse scorgendo un’ombra di stanchezza sul volto del giovane, lo fermò:
«Ragazzo, la tua lucidità mi pare agli sgoccioli…», pontificò il Cancelliere, «Ritirati pure: il domani richiede sempre maggiori fatiche.»
La voce di Kostantinos non tardò:
«Si, maestro…», scandì il Kos, “Specie se in ogni domani bisogna trattenersi con pietosi spettacoli, disutili personaggi, oziosi giochetti ed altro ancora!”, ma queste parole non varcarono la soglia della sua mente.
In nessun modo, in nessun caso e con nessuno, il nostro virgulto si permetteva di fare certe precisazioni. Solo Alexemonos poteva sentire il fremito interiore che, ogni tanto, catturava Kostantinos e lo strappava a quella patina assai enigmatica che i meno accorti scambiavano, invariabilmente, o per timidezza, introversione o una pura e semplice indifferenza verso quanto non lo interessava.
Il punto era proprio questo: a parte il Cancelliere, ben poche altre persone al mondo potevano affermare di intuire qualcosa sotto quella imposta maschera; non meno di certi volti senza alcuna espressione che continuano a tormentarci nella Storia.