Siamo onesti; “chiamatemi Ismaele”, non tuona come il più folgorante incipit della letteratura (Inglese): eppure è così. Liquidato il narratore in tre parole (call me Ishmael), il lettore si ritrova, da subito, immerso nel malumore.
Il narratore, c’informa del suo “novembre umido e piovoso”; di cosa è fatto e di come se ne cura. Il malcontento d’Ismaele è un distillato semplice come il bourbon: un blend di miseria, declinata in quattrini ed interessi. Quando Ismaele è assalito dallo “spleen”, prende il largo; non cerca d’attaccar briga per strada, non afferra una pistola né corre dietro al primo funerale: non si getta sulla spada come Catone. Ismaele, cheto, cheto, s’imbarca sulla prima nave d’altura. Ciò che segue è Moby Dick.
A dispetto del candore, Moby Dick è un infuso di bile nera ed al contempo un’opera monitoria.
Il primo, decisivo, non expedit del libro è l’opera stessa. Herman Melville, prima di Moby Dick, era un autore di modesto successo. Tre inutili romanzi, un ciuffo di pubblico affezionato e la fiducia editoriale di pubblicarne un quarto: l’interesse editoriale, al pari d’un armatore, è squisitamente economico. Il quarto libro di Melville, Moby Dick, a stento s’è salvato dal macero! Il naufragio del Pequod-libro, ampiamente predetto dallo stesso autore, è presto detto: non si scrive di malumore. Così, almeno, nel 1851: adesso è la regola. Non solo un fenomeno letterario come Cuore di Tenebra, Viaggio al Termine della Notte o La Nausea; i più comuni “post” di Facebook sono un distillato di bile: Il “capitano” (Salvini) Trump, nel suo piccolo, un minuscolo Ahab. Il successo postumo di Moby Dick è figlio d’una trasformazione antropologica, prima letteraria e poi comune: l’eclisse del ragionevole.
Il secondo, fortunatissimo, taboo letterario stracciato da Moby Dick è nella scelta del narratore: un individuo di nessuna importanza collettiva. Pensate al narratore del Signore degli Anelli, di Piccolo Grande Uomo, Guerre Stellari o Fight Club, e ne avrete la giusta misura. Anch’io, nel mio piccolo, ho fatto raccontare l’eroismo della fuga da un uomo inutile; se troverò la clemenza d’un editore, qualcuno leggerà “Svignarsela!”: altrimenti, chi se ne frega. Ecco; un altro, stupendo, cambio di passo di Moby Dick è nel vagito da prete: quello che preferisco e che, prima o poi, capita a tutti. Capita con la senilità, quando il pensiero si fa largo nella scorza fracassata da molte cose di molto crudeli, ovvero con la paternità, che eleva chiunque al di sopra dei propri limiti.
Capita, non solo ai filosofi, di essere monitori. Quando capita, a buon giudizio, bisognerebbe essere accessibili: non profetici! Una predica efficace è tale se, e solo se, veste i panni di chi l’ascolta, senza calzare il proprio abito a chiunque capiti: quelli si chiamano profeti. La comune sorte dei profeti è quella d’esser malintesi, il che ne fa dei pessimi predicatori. L’effetto letterario del profeta, in massima sintesi, è quello descritto da Nietzsche: “se guarderai a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te”. La forza magnetica che lega Ahab a Moby Dick, ed il lettore all’omonimo libro, è tutta qui. “Non avrai altro Dio all’infuori di me”, lo leggi una volta e tanto basta. “Ricordati che devi morire” merita l’appunto, solo, di Massimo Troisi ma se sostieni che sia “il fulmine la misura di tutte le cose” od imponi di conoscere te stesso (gnōthi seautón), ti trovi cambiato. Quando t’impegni sulla patente del motorino, ti si presenta il divieto d’accesso: passano gli anni e questo ti s’attende sempre uguale. Moby Dick, letto a quattordici anni, non è lo stesso che rileggi alle soglie dei cinquanta: ciò a dire che non suona monitorio!
In effetti, ed è questo l’insolito destino di Moby Dick, la pretesa dell’opera non è monitoria: non prescrive un facere od un non facere. È, per così dire, un “avviso ai naviganti”; il bugiardino che accompagna un farmaco salva vita: di quelli che non puoi decidere di non assumere e dei quali, il produttore, declina subito ogni responsabilità. Vediamo d’intenderci.
Ridotta all’osso, Moby Dick è la cronaca d’una corsa all’oro, dalla quale si sopravvive solo per raccontare. Estrema quanto si vuole, la pesca d’altura è stata pur sempre un mestiere: Ismaele un salvato dai flutti ai fini pensionistici. L’impresa fallita (il Pequod), l’imprenditore (Ahab) schiattato e tutta la ciurma (Starbuck, Elijah, Queequeg, etc.) in compagnia dei pesci: l’oro (la balena) serrato nel luccicar dei flutti. Così, seguendo il canovaccio, si risolve la “cura” al malumore d’uno squattrinato: la lotta all’umana miseria. L’eco di sacre scritture e di buone letture shakespeariane sono la glassa: Ishmael è sostanzialmente Parsifal, a cui è stato dato di vedere il Graal. Lo conferma il seguito, Il Grande Gatsby, e l’epilogo, Il Grande Lebowski, che segna la fine della “corsa” ed il prolungarsi della “febbre” al/dell’oro. Punto.
Ora: posto che sotto il braccio d’uno studente “americano” insiste Moby Dick od al più Topolino, nella variante Paperon dei Paperoni, è implicito chi abbia vinto la corsa. Nella società dei tanti chiamati e dei pochi eletti, l’anteporre l’epilogo alla corsa, il bugiardino al farmaco, ne ha minato l’assunzione. Introdotto nelle scuole come generatore simbolico ed al contempo esimente, su scala collettiva, di quanto richiesto all’individuo dalla modernità, Moby Dick è l’archetipo del post-moderno: il “novembre umido e piovoso” dell’incantevole modernità. Monitorio forse no ma ambiguo quanto basta per essere profetico.
A due secoli dal primo vagito, valeva la pena ricordare Melville come Ishmael: testimone di quanto la cura, più spesso di quanto è dato credere, si riveli peggiore del male.