La riapertura: un marasma di emozioni e di cose da imparare.
Lunedì 18 maggio l’Italia ha riaperto le porte alla vita. L’emozione è stata tanta quando il presidente Conte la sera prima si è affacciato in differita televisiva proprio all’ora di cena facendo appoggiare forchette e cucchiai sui tavoli delle cucine, dove tutti quanti abbiamo trattenuto il respiro per ascoltare le sorti che sarebbero toccate ad ognuno di noi all’indomani.
Già nelle prime ore del mattino i rumori erano a livelli dolorosi, forse perché oramai le mie orecchie e i miei sensori si erano sopiti nei lunghi e silenziosi giorni della quarantena, o forse perché semplicemente non ero pronta. Troppi timori, ancora tanta incertezza, eppure dovevamo farlo, dovevamo rialzare la testa e tornare il più possibile alla normalità.
I marciapiedi ricevevano passi frettolosi, le botteghe facevano nuovamente mostra di sé e i loro bottegai tiravano di nuovo boccate d’aria mista a speranza. Ognuno si muoveva con fare titubante, quasi guardingo, mentre la tensione per far sì che tutto andasse bene, si affettava col coltello.
I bambini, con le mascherine anche loro, saltellavano sotto la pioggia vogliosi di riprendersi la vita che un “bobo” crudele gli aveva portato via e che ancora continuava a fargli tenere il visino coperto.
Ogni tanto mi veniva facile andare alla finestra del mio negozio per infilarmi di nuovo quel mondo dentro, quel mondo fatto di movimento, di gente laboriosa e vogliosa di riprovare, di riprovarci.
Mi sentivo come un nodo alla gola a vedere tutti quegli uomini e donne di buna volontà, e non ultimo a pensare alle categorie che ancora non avevano potuto riaprire, o che magari neanche avrebbero riaperto.
Fa male pensare che persone adulte si debbano reinventare, che debbano pensare ad un altro lavoro, impararlo perché impossibilitati a riaprire i battenti di quello che è stato il loro sostegno, la loro soddisfazione per tanti anni, quello stesso lavoro che ha cresciuto intere famiglie, che ha fatto studiare i figli portandoli all’età di essere adulti.
Adesso la settimana lavorativa è quasi finita e in qualche modo ce l’abbiamo fatta. L’ortolano corre di nuovo con tutta la sua fierezza, l’ottico apre la serranda con più decisione e i parrucchieri portano via i loro sacchi neri pieni di lavoro finito, persino i fiori del fioraio di fronte sono più belli.
E’ vero, abbiamo fatto a meno dei sorrisi, ma abbiamo potuto incontrarli negli occhi, occhi bellissimi, sottolineati dalle mascherine di tutti i colori e generi, come se oramai facessero parte di noi, tanto da dargli l’importanza del gusto e della scelta.
Mascherine per tutti, come unica medicina per arginare un male con un nome preciso, ma che di preciso non ha niente, perché può agire su ognuno di noi a suo piacere, perfido e beffardo, e doloroso e profondamente cattivo.
Dobbiamo augurarci che si sia stancato di noi e che non ci guardi riprendere a piccoli passi la vita, per poi saltare fuori di nuovo, così, all’improvviso. Già ci ha costretto ad essere noi soltanto a metà, non permettiamogli di coprirci anche gli occhi!
Non vedo l’ora, la prossima settimana di incontrare di nuovo tutti quegli uomini e quelle donne che non con poca fatica si sono ripresi la vita.