“Io accuso!”, tuonava Zola dalla prima pagina deL’Aurore, “e poiché è stato osato, oserò anche io”.
Émile Zola sapeva benissimo d’esporsi all’ipotesi di diffamazione ma, per amor di verità, non esitò a dare testimonianza: naturalmente ne seguì un processo in cui, il letterato francese, fu condannato. Era la prima volta che un uomo di cultura si dedicava all’impegno civile e, quello di Zola, contribuì non poco nel far riaprire il caso Dreyfus: rendendo giustizia al capitano.
La sentenza che aveva condannato il capitano Dreyfus all’Isola del Diavolo, come in seguito fu dimostrato nelle sedi opportune, non era semplicemente iniqua ma sfidante. Un guanto in faccia all’equità, alla rettitudine ed al dovuto che lega governati a governanti, giudici ad inquisiti ed uomini ad altri uomini. Il caso Dreyfus terremotò la III Repubblica francese, determinando le dimissioni del governo e l’affermazione delle forze d’opposizione. Non che la Francia, di punto in bianco, diventò tutta socialista ma fu messa innanzi al verdetto ignobile d’uno Stato repressivo. Per questo, i francesi di fine secolo, reagirono.
Ieri è stato sentenziato il destino di Domenico Lucano, sindaco d’un paese dimenticato dell’Aspromonte: Riace.
Riace non offre scenari mozzafiato né può permettersi il lusso di partecipare a concorsi di bellezza prezzolati a cui, alcuni sindaci, inscrivono i paesini: Riace non avrebbe vinto comunque e non solo per penuria di mezzi. L’attuale sindaco, prossimo alla Lega, ha avuto l’indiscutibile merito di ricordare come Riace sia stata la città natale dei Santi Cosimo e Damiano: quanto Poppi, ad esempio, annovera Torello! Ma Riace, nel mondo, è conosciuta per il ritrovamento degl’omonimi Bronzi: presto emigrati al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Riace, da tempo immemorabile, è terra d’emigrazione ed anche Domenico Lucano è stato, per 18 anni, un emigrato. Fino a vent’anni fa, Riace, rischiava di scomparire dalla carta geografica: molte case erano diroccate e la scuola era sul punto di chiudere per via dello spopolamento dei giovani, diretti verso un qualche altrove.
Poi.
Poi, complice il caso, un veliero di profughi curdi (turchi, iracheni e siriani) approdò sulle sponde di Riace Marina ed a qualcuno venne in mente d’ospitarli. “Tutto è cominciato con una botta di vento”, racconta Tiziana Barillà in un volume che mi permetto di segnalare (Mimì Capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace – Tiziana Barillà – self publishing 2017) ed a cui rimando per la storia di Domenico Lucano e del paese che lo ha ospitato: al pari dei santi pinco e pallino. Per l’economia di questo articolo, basti sapere che, la decisione d’occuparsi di quello che altri preferiscono non fare, ha scongiurato lo scivolamento verso l’oblio della piccola Riace. Le vecchie case diroccate furono concesse in comodato ai richiedenti asilo, per le attività commerciali si favorì l’autogestione: i benefici furono per tutti. Per quanti, fra gl’amministratori, ne vogliano fare utile riferimento, il modello di sviluppo di Riace è studiato come best practice sotto la locuzione di “sistema di accoglienza diffusa”.
Se ne sono accorti, negli anni, la BBC, Wim Wenders e perfino Fortune: il mondo, prima dell’Italia, s’è accorto di Riace. Il c.d. “modello Riace” è stato un esempio di sinergia ed integrazione che ha scongiurato lo spopolamento delle regioni interne d’Italia che qualcuno voleva rimediare col finanziamento (pubblico) dei capitali privati versati negl’agriturismo: con risultati di gran lunga meno soddisfacenti. Naturalmente, ça va sans dire, il “modello Riace” non ha reso tutti contenti: magari proprio chi aveva investito nell’agriturismo, o forse no (o forse peggio). Tant’è che la Procura di Locri ha visto bene d’indagare sull’attività dell’amministrazione riacese: riscontrando non poche irregolarità. N’è sortito un processo ch’è venuto a sentenza il 30/09/2021.
La sentenza è scioccante.
In nome del Popolo italiano, Mimmo Lucano è stato riconosciuto, fra l’altro, a capo di un’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE FINALIZZATA AL PECULATO con l’aggravante della continuazione: condannato a 13 anni di galera ed alla confisca di un milione di euro che, fra l’altro, Lucano non è neppure prossimo a disporre.
Ora.
Nei suoi minimi termini già il dispositivo della sentenza è raccapricciante perché “quasi” equipara Mimmo Lucano a Massimo Carminati: “quasi” perché a Carminati è stata erogata una pena di poco inferiore a quella di Lucano. Per il resto, Carminati e Lucano siedono allo stesso tavolo dei truffatori ai danni dello stato. Tutto questo è semplicemente inaccettabile: anche operando con una logica lunare, piovuta sulla Terra con l’ultimo acquazzone. Per chi conosce Domenico Lucano, incluse le magistrature tanto inquirenti che giudicanti a cui la Legge fornisce ogni mezzo per accertare tanto i fatti che l’elemento soggettivo delle ipotesi di reato, l’operazione giuridica compiuta a Reggio Calabria è, per lo meno, discutibile: inutile trincerarsi dietro l’ignavia de “le sentenze non si discutono”! Quando ci si esprime in nome del popolo italiano è doveroso chiarire a chi si deve dar conto. Magari non l’avete capito ma i giudici di Reggio Calabria non si sono espressi in mio nome per cui, evidentemente, non fanno conto su di me. Lecito, quindi, chiedersi a quale “popolo” facciano riferimento.
Forse, come al tempo di Dreyfus, è giunto il momento di darsi una contata: perché ad una sentenza “politica” si risponde politicamente. Per i calabresi l’occasione è ghiotta e per l’Italia tutta, prima o poi, verrà. Non c’è bisogno d’esser socialisti, basta saper raccogliere l’invito di Steinbeck in Furore: “If you’re in trouble or hurt or need–go to poor people. They’re the only ones that’ll help–the only ones”.
“Se sei nei guai, ferito o nel bisogno, vai dalla povera gente. Loro sono gli unici che t’aiuteranno: gli unici”. Questo era il sott’inteso della vita di Mimmo Lucano che, a buon Diritto, adesso si dichiara “morto dentro”. Non discuto se Mimmo Lucano, nell’esercizio delle proprie funzioni, abbia commesso degli errori: registro soltanto che un cittadino esemplare per coraggio, devozione ed equanimità è stato considerato un criminale. La condanna di Domenico Lucano, nei modi e termini in cui è stata celebrata, non è solo la giaculatoria ad un modello scomodo (quello che fu di Riace) ed all’impegno d’una cittadinanza attiva e solidale: è un vulnus all’idea stessa di giustizia.
L’ennesima ferita inferta a quelli che, nel nostro vissuto sociale, ne hanno più bisogno …
la povera gente.