Proprio come in paradiso

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Entro la teoria musicale si chiama “ostinato” ma è meglio conosciuto col diminutivo che ne coglie l’eterno ritorno: il “ritorn-ello”.

In poche parole, l’”ostinato” ovvero il volgare “ritornello”, è una breve frase musicale che, ripetuta ad oltranza e senza variazioni, costituisce la cifra d’un brano musicale: il motivo che si pianta nella memoria. Il mago dell’”ostinato” è stato, senza ombra di dubbio, Rossini e l’esempio più folgorante è contenuto nel finale del Guglielmo Tell. Ascoltatelo, per favore, e provate a silenziare gli ottoni: non ci riuscirete mai! Di più: gli ottoni non si staccano da quelle note (c.d. “ostinato di basso”) per tre minuti contati; al quarto minuto, ne sono certo, scatterebbe l’emiparesi degli arti e l’abbrutimento delle labbra: se l’ostinato, del finale nel Guglielmo Tell, dura “solo” tre minuti è per il raggiunto limite dell’umano!

Il brano di Rossini, naturalmente, è molto più complesso della sua linea di basso ma, se pretendete di richiamarlo alla memoria, le labbra cadranno sull’ostinato. Se vi sfugge Rossini, provate pure con With or Without You degli U2: o vi mettete a canticchiare “i can live with or without you” o ripete le quattro note maniacali che accompagnano la melodia (quelle suonate dalla chitarra basso). La musica rock è tutta qui: il ritornello della voce solista e quello della chitarra. Il primo, forse perché si presta al canto, lo chiamate propriamente ritornello mentre il secondo è detto riff. Il riff sembra qualcos’altro dal ritornello ma è solo un vezzo; riff è il diminutivo anglofono del francese “refrain”: il “ritornello” ancorché limitato all’accompagnamento vocale (l’”ostinato” dei bassi nel finale del Guglielmo Tell).

Su queste basi, vale a dire sull’indubbia capacità dell’umano di cogliere le ricorrenze e tralasciare tutto il resto, si potrebbe costruire una solida teoria della conoscenza e, a pensarci bene, è esattamente quello che abbiano fatto in Occidente. Non a caso, il padre illustre del riduzionismo matematico è anche il primo teorico musicale: Pitagora. Persino la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche s’illumina al cospetto dell’”ostinato musicale”: tanto quanto si coglie la simpatia del baffone tedesco per il mondo delle idee di Platone. La cultura è reminiscenza e noi, noi tutti, teniamo a mente solo ciò che si ripete: “einmal ist keinmal!”. Va da sé l’umana tristezza di cogliere solo la minima parte dell’ensemble che ci circonda e suonare, di fatto, come un ostinato ritornello: ma, ad un certo punto, bisogna farsene una ragione.

Perdonate la tirata intellettuale, che tanto non avete memorizzato, e torniamo al rock.

L’avete capito: mi sono messo a scovare le pietre miliari del rock, muovendo dai riff di chitarra. La ragione è presto detta. Convivo con una chitarrista in erba (la mia step daughter, figliastra ovvero figlioccia e figliaccia, Sofia) e, al solo scopo di pontificare sulla sua passione, mi sono dedicato alla rassegna dei migliori assolo (a parer mio) di chitarra: n’è sortita misera cosa. Le pietre miliari della musica rock non sono mai passate per le altezze virtuose della chitarra: semmai sono state attraversate dai “meme” dello strumento. La storia del rock è un succedersi di “ostinati”, di riff, lasciati alle mani della chitarra. La cosa avrebbe anche un notevole strascico intellettuale ma è meglio se la cosa la riservo per me. Resta il fatto che, nella storia del rock, i “prima” ed i “dopo” sono cadenzati sui riff della chitarra: prima Satisfaction, dei Rolling Stones, poi Whole Lotta Love, dei Led Zeppelin e dopo With or without You, degli U2. Forse non sono neppure i più bei riff di chitarra ma, di certo, sono il metronomo di un’epoca: epoca, rock, ben inteso. L’epoca nell’accezione del rock non supera, spesso, il lustro ma, forse, è proprio per questo che affascina. È impossibile che, nell’arco d’una vita, s’attraversino le ere geologiche: quanto è improbabile attraversare rivoluzioni sociali, culturali o politiche (magari se ne attraversa una e bisogna pure ringraziare … perché segnala l’invecchiamento!). Il rock, in questo senso, è spumeggiante ma, forse, è solo il figlio legittimo della civiltà dei consumi: anche se io mi ostino a non vederlo “solo” così.

Per farla breve, la canzone rock è composta da due ostinati; il ritornello vero e proprio, lasciato alla voce solista, ed il riff (ostinato anche lui!) d’una chitarra: in tutte le varianti disponibili al commercio. Ci può stare un preludio, una o più strofe, magari un assolo ed una variazione nel ritornello ma la storia del rock è il lungo commento al finale del Guglielmo Tell di Rossini: quanto la storia della filosofia è il prolisso commento a Platone.

L’ostinazione filosofica (o, se preferite, quella logica) è sempre contenuta nei postulati del sistema che, se non proprio taciuti, si possono trovare sparsi nel discorso: il che comporterebbe l’impegno allo studio. Col rock, le cose sono molto più semplificate: al netto del (brevissimo quando c’è) preludio, si parte subito col riff. Le prime note della chitarra elettrica, che segnano Satisfaction, Whole Lotta Love come With or Without you, mettono subito in chiaro la propria ostinazione: il ritornello della chitarra è quello, e si fa subito presente (come l’ostinato dei bassi nel Guglielmo Tell). Con questo facile stratagemma, che poi è quello che s’incunea nella memoria come un meme, si fa prestissimo ad isolare un riff e, come nel mio caso, scegliere i più significativi. Ci si può anche divertire, ed io l’ho fatto, a glissare su quelli che hanno incontrato il favore della selezione genetica (i più famosi) per scovare quelli che più insistono nelle proprie corde.

Io, senza saper leggere né scrivere, mi sono rivolto all’enciclopedia britannica della chitarra: al secolo Johnny Marr. Di Johnny Marr si possono dire due cose: che è antipatico come la merda e che nessuno è in grado di capire quale musica l’abbia formato. Se lo chiamo “enciclopedia britannica della chitarra” è giusto per questo: perché sviluppa riffs che non sembrano nemmeno lontani parenti. Ne prendo uno, per altro estratto da un pezzo che non è mai stato nemmeno un quarantacinque giri, e lo eleggo a mio riff preferito: Some Girls Are Bigger Than Others degli Smiths.

Potevo fermarmi qui.

Potevo ma non ho voluto: alla Sartre. Ho continuato a viaggiare sulle corde perché, in fondo, è divertente e prende la mano: per altro non sono andato lontano. Mi sono ostinato su una canzone coeva a quella degli Smiths e che, non so bene il perché, ho sempre amato: è Just Like Heaven dei The Cure. Se non l’avessi ripercorsa con la dovuta perizia, non sarebbe valsa la pena di aver scritto ciò che precede e segue.

La musica di Robert Smith, piaccia o non piaccia, è largamente non convenzionale. Se un breve articolo offrisse il giusto spazio, sarebbe interessante dar conto della peculiarità che ammanta una cult-band come The Cure. Qui basti una di queste peculiarità, legata alla popolarità dei riffs composti da Robert Smith. Fin dai primi successi (perché The Cure sono comunque stati una band di successo) Robert Smith non ha mai “tirato” la sua chitarra: ciò a dire che, ordinando il rock sulla base dei migliori assolo di chitarra, Robert Smith non sarebbe neppure classificato. Di Più: se col termine “tirare” s’intende, anche, l’abitudine di far “strillare” la chitarra (all’uso di Jimmy Hendrix in Voodoo Child o di qualunque pezzo heavy metal), con Robert Smith non ci siamo per niente. Le corde che, dalla tracolla, insistono sul pube (vale a dire la 5° e la 6°), Robert Smith non le tocca neanche! I riffs dei primi The Cure (A Forest, Charlotte Sometimes, per dirne qualcuno) si giocano tutti sulle prime 2-3 corde suonate, fra l’altro, quasi come si trattasse di una chitarra basso. L’effetto, ancorché gradevole allo scrivente, si risolve nell’approssimarsi, e nel mescolarsi, fra le note dell’accompagnamento del basso (il cui volume viene alzato) e quello della chitarra elettrica (il cui volume viene abbassato). Io, per intendermi con me stesso, l’ho sempre chiamato riff-basso ed è la cifra stilistica di un genere musicale che gli Inglesi chiamano ghotic music ed in Italia è noto come dark: forse perché, noi Italiani, siamo più inclini a valutare la sartoria della stoffa.

Al di là del buon successo di pubblico, la critica musicale britannica salutò la gothic music, il dark, o semplicemente la musica di Robert Smith, con una salva di fischi: aggettivandola come “lugubre” e “deprimente”. Un rock deprimente, converrete con me, non s’era mai sentito! La stampa comincia a costruire storie di adolescenti suicidi, nel cui armamentario musicale erano stati rinvenuti, m’immagino fra gli altri, alcuni LP dei The Cure. Come qualcuno vide in Mick Jagger l’anticristo, così, qualche decennio dopo, qualcun altro vide in Robert Smith una specie di angelo della morte. Se Mick Jagger reagì alle critiche con la mitica Simpathy For The Devil, una personalità evitante ed introversa come quella di Robert Smith (che non spinge le mani oltre la 4° corda) provvide qualche nota di colore. Robert Smith inizia a truccarsi da pagliaccio, prova a vincere la timidezza con qualche sorriso ma continua a vestirsi di nero: peggio mi sento! Conciato così, ottiene solo un effetto paradosso; a differenza di Mick Jagger, è evidente che Robert Smith, col pubblico, non ci sa fare: non a caso nessuno ha mai scritto “i’ve got the moves like Smith”!

Robert Smith non si limita a cambiare il look ma si provvede a stravolgere la propria musica. The Lovecats, quanto Close To Me, rasenta il sudiciume musicale. Sparisce quello che ho presentato come riff-basso (il marchio dei The Cure) e rimane la voce naturalmente pop di Robert Smith che, privata del contrasto con l’ostinato di basso, perde qualsiasi appeal. Quando dico che sparisce il riff-basso non intendo che le chitarre si mettono a volare sulla 4° corda: si silenziano! In Close To Me, se avete il coraggio di ascoltarla, suona di tutto fuorché la chitarra di Robert Smith.

Oltre a quella fisica ed a quella civile, esiste la morte artistica.

Non so quanti di voi coltivano il proprio buon “demone” (dáimōn) ma v’assicuro che, per chi ne dispone, veder perire il proprio demone è di gran lunga peggiore della morte civile: tanto da far desiderare la morte fisica. Non lo dico io, che non ho quest’ingegno: lo dice Il Maestro. Bulgakov, prima del miracolo umano e letterario rappresentato da Il Maestro e Margherita, era finito in sanatorio: a Robert Smith, in questo senso, è andata meglio. La resurrezione del Maestro declinato a Robert Smith non poteva essere un romanzo ma una canzone: questa canzone è Just Like Heaven o, meglio, il suo riff di chitarra.

Io proverò a spiegarvi cos’è la resurrezione artistica ma voi, per favore, fatevi guidare dal video ufficiale della canzone: s’intitola Just Like Heaven, se non l’avessi ripetuto abbastanza.

Just Like Heaven si apre con una lunga introduzione che il video musicale tiene di conto: fatelo anche voi. Gli strumentisti suonano veramente e la cinepresa lo vuole sottolineare. L’unico che finge di suonare, e si mette di spalle, è il Maestro di questa storia che, al colmo dell’ironia cinematografica, sarebbe anche la voce solista e l’unico estensore del pezzo. La canzone, seguita dal video, si apre con il basso e la batteria. Dopo otto secondi, vale a dire una ragionevole introduzione rock, entra la chitarra elettrica. Se state guardando le immagini del video, vi accorgerete che la cinepresa non ne prende atto: inizia il riff-basso ma non c’è immagine che lo testimonia. Passano 13 secondi ed entra la chitarra acustica: quella nelle mani di Robert Smith, così come testimoniato dal video. Al ventiseiesimo secondo entra il keyboard. Venti secondi, per un’introduzione rock sono un’eternità ma, visto che gli strumentisti ci sono tutti, a questo punto sarebbe l’ora che la voce solista cominciasse la prima strofa: ed invece no.

Dalla sinistra del teleschermo entra la lead guitar e l’operatore di camera, finalmente, certifica che si tratta di una ostinata canzone dei The cure. A favore di telecamera, per altri 6 secondi, le dita della lead guitar pizzicano il riff-basso fra la 1° e la 3° corda.

Poi.

Poi, dopo 27 secondi dalle prime note, accade un miracolo: certificato dal video. A favore di telecamera, le dita sulla chitarra elettrica lasciano le prime corde e sul brano, come fosse un’ipostasi, scende un secondo riff sulla 5° e 6° corda: l’effetto è semplicemente iconico. Per altri 23 secondi gli strumenti si mettono al servizio di un riff in stile indie che non lascerà più la canzone per tutti i 3 minuti e venti che misurano il brano. Il segreto che apre il paradiso a Robert Smith è quello d’aver concepito due riff di chitarra nello stesso pezzo e di aver presentato il secondo (quello indie che, dall’udito, cerca spazio nell’immaginazione) come il ritornello (quello lasciato alla voce, per intenderci): il ritornello di una canzone che potrebbe andare avanti così per sempre.

Il motivo, poi, si sviluppa con il coro ed il ritornello. C’è spazio anche per l’assolo del keyboard travestito da pianoforte e la solita ripetizione del ritornello. Questa mia lunga descrizione, in realtà, sono solo i cinquanta (C-I-N-Q-U-A-N-T-A) secondi d’introduzione che compongono Just Like Heaven. Ma c’è di più. Just Like Heaven sono tre canzoni distinte legate da un unico riff: quello indie. C’è la prima canzone rock, solo strumentale e composta dal riff-basso e dal riff indie; c’è una canzone pop, adagiata sulle frasi ed il ritornello della voce, in cui il riff è lasciato al keyboard; c’è un terzo motivo, alla guisa di Impressioni di Settembre, in cui il keyboard suona il ritornello (anche se sembra che stia solo suonando un assolo) accompagnato dalla voce. A legare tutto, sopra tutto, un lungo ed ostinato riff di chitarra sulle corde dell’indie.

Forse sì; il miglior riff di chitarra mai scritto da anima viva che, all’inferno, si trova proprio come in paradiso: quel posto in cui, a dispetto della gente, non è possibile bruciare un manoscritto né rinunciare ad un riff-basso ….

soprattutto quand’è ostinato.

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