Incontri ravvicinati: Marion d’Amburgo e il suo legame con il Casentino

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Marion d'Amburgo

In linea d’aria la distanza fra il Casentino e la Val di Chiana è di circa 25 chilometri, le strade da percorrere sono però più articolate e tortuose. Che cosa ti portava, un tempo, verso Poppi, Bibbiena, le foreste Casentinesi?

«Mi portava la voglia di conoscere, l’inquietudine dell’adolescenza e un sodalizio che cominciava a delineare una visione e un percorso artistico del tutto particolare, parliamo degli anni dopo il ’68, anni entusiasmanti, anni di speranza e di crescita sociale, culturale e politica, età dell’oro che purtroppo sfocerà di lì a poco nelle brume degli anni di piombo. Proprio in Casentino misi per la prima volta piede in un palcoscenico. Spesso la famiglia Lombardi mi accoglieva nel loro paradisiaco orto/giardino tra le case e la ferrovia. In Casentino scoprivo un paesaggio aspro diverso dalla dolcezza materna della mia Val di Chiana, con le debite differenze riscontravo la stessa tenace mano dell’uomo nel plasmare la natura. Medium tra le due realtà Arezzo dove frequentavamo le scuole superiori sotto l’ala di Piero della Francesca.»

Quando hai sentito la necessità di avvicinarti al teatro?

«Il primo anno delle scuole superiori viaggiando e dialogando con Vera e Federico sul trenino che collegava la Val di Chiana ad Arezzo dove incontravamo Sandro che proveniva dal Casentino. Il relitto art déco attraversava la valle in mezzo a fioriti campi di rape, grano e gran turco e in quel viaggio prima della scuola, – spesso la marinavo – cominciava a delinearsi un’idea di teatro vigorosa ed esigente. Non volevo diventare un’attrice laureata, sono sempre stata insofferente alle Accademie e alle scuole che professionalizzano il lavoro dell’attore, non m’interessava affidarmi a un metodo già elaborato, volevo sviluppare insieme ai compagni d’avventura un’idea diversa di teatro, consapevole che quella era la mia strada.»

Quanto ha influito inizialmente la decisione di percorrere cammini artistici l’amicizia con Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, anche loro provenienti dalle stesse zone geografiche e di interesse?

«Mi aveva fulminato l’idea di un’arte che doveva poggiare sulla relazione, avevamo cuori selvaggi, come Dante “Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io”… la fuga in avanti verso una nuova idea di teatro era frutto di un incantamento reciproco, le differenti alterità e sensibilità erano una ricchezza che incrementava un sodalizio quasi simbiotico, macinava voracemente idee, concetti e professionalità. Non riesco a immaginare un altro cammino o altri compagni, in quel delicato momento di formazione ci siamo vicendevolmente plasmati, molto amando e molto soffrendo.»

Quale è stato lo scatto che ha determinato il lasciare le terre di origine per lanciarsi strade più aperte?

«Ricordo una poesia di B. Cendrars un poeta che non ho più frequentato in età adulta, consumai i suoi versi con un empito che solo la giovinezza rende possibile, per me erano di una saggezza quasi geologica e inveravano tutta la mia voglia di possedere il mondo. Partire è amare. Amare è partire.

“Se ami questo è il momento di partire

lascia tua moglie lascia il tuo bambino

lascia il tuo amico lascia la tua amica

lascia la tua amante lascia il tuo amante

quando si ama si deve andar via.”

Tra spacconeria e tenerezza andavo verso il sogno e l’avventura, e così appena diciasettenne sono scappata di casa facendo letteralmente il vuoto alle mie spalle.»

Su uno sfondo di fertile elaborazione formale e tematica nasce “Il Carrozzone” una compagnia teatrale che partecipa fin dal 1972 alla “nouvelle vague” della scena italiana. Quanto all’epoca avevate la percezione dell’importanza che questo “esperimento” avrebbe avuto nei decenni a seguire?

«In quegli anni l’impossibile era possibile e con questo tipo di tensione interiore non mi sono mai posta il problema del dopo, giorni pieni, sequenze infinite di progetti e sfide, tappe e risultati messi periodicamente in crisi da nuove mete da raggiungere, una tensione utopica vigorosa e alcune volte velata di malinconia, un crogiolo in cui era facile scottarsi ma l’energia fluiva e stimolava la ricerca di nuovi percorsi.»

Da “Il Carrozzone”, poi Magazzini Criminali e dopo Magazzini, l’accento della ricerca si sposta verso il teatro di poesia. Che cosa aveva determinato questo passaggio?

«Siamo nei primi anni ’80 e lo spostamento avviene quando cominciamo a misurarci e confrontarci con i testi. La fondazione del teatro Studio a Scandicci con il progetto Perdita di Memoria venne indirizzato alla ricerca e alla sperimentazione drammaturgica sull’attore e le sue relazioni con gli elementi della scena, – suono, spazio, luce – gli spettacoli della trilogia resero evidente la ricchezza di questo approccio. “Teatro di poesia” è l’analogo dell’idea pasoliniana di “cinema di poesia”, un procedimento in cui la lingua e lo stile sono essenziali, in poche parole si tratta della lingua scelta per dare corpo a un testo. Scrive Tiezzi ‘La poesia induce e reclama il disordine della visione: la prosa progetta e reclama l’ordine del mondo’.»

Vastissima è la produzione, la denominazione “Magazzini Criminali” era legata all’esplorazione sui padri della sperimentazione, Artaud e il teatro della crudeltà, il teatro dell’assurdo, Genet?

«La tensione ideale che voleva costruire il teatro di domani aveva l’obiettivo di fare dello spettatore non un muto consumatore ma un essere attivo e partecipe. Sembrava possibile che l’oggetto del teatro non fosse solo la scontata ricerca che permette di arrivare alla produzione di un’opera ma un processo condiviso da un insieme di persone che si confrontano con l’urgenza di sperimentare nuove strade per costruire un tessuto esistenziale, relazionale e produttivo. Teatro come cosmo e tessuto di relazioni non ordinarie in cui il singolo è un anello di una lunga catena che raccoglie persone e competenze. Artaud, Genet, Brecht, Beckett sono stati fonte di ispirazione e un territorio di ricerca per arrivare a definire una propria idea di teatro.»

La tua ricerca di attrice si evolve poi per strade personali: come avviene la scelta del percorso teatrale (e non solo) che arriva fino ai giorni nostri e la collaborazione artistica con grandi nomi del teatro italiano? Oltre alla tua presenza nel teatro come costumista?

«Mi sono avventurata nel teatro disponibile ad attraversare esperienze percettive e creative del tutto particolari, esposta esistenzialmente con la parte più fragile, il corpo. Ho contributo alla violenta e rabbiosa vitalità degli anni ’70, sembrava meraviglioso partecipare alla costruzione di una realtà che partiva dal “grado zero” e saggiava la lingua di un corpo e di una voce collocati in uno spazio nudo e senza dimenticare l’aspetto esistenziale. Tra tutte le arti il teatro si occupa dell’uomo, la pratica dovrebbe contribuire a scuotere l’anima dello spettatore come un vento di tempesta. Andavo dietro all’intensa energia proiettiva del desiderio, il desiderio è esigente, è facile trovarsi ad agire in un campo di battaglia o in un gorgo di correnti contradditorie. Il teatro fa riferimento a molte discipline ed esige uno sguardo aperto al mondo, per fortuna pur sbatacchiata dalle correnti ho incontrato altri viaggiatori che come me agivano spinti dalla “ necessità” di esplorare qualcosa che non è possibile eludere, solidali nel condividere i rischi, paghi di riemergere con qualche scintilla di consapevolezza in più. Mi piace sottolineare l’importanza di una condizione di apertura, e la volontà di non entrare in percorsi rassicuranti di specializzazione, mi riferisco all’approccio artigianale del fare insieme agli altri praticando soluzioni inedite. In questo senso non mi sono mai davvero laureata attrice, drammaturga o costumista ma sono tutte queste cose insieme perché in palcoscenico il processo creativo esige una condizione di massima apertura. Non apprezzo la svalutazione dei processi materiali che la pratica della specializzazione porta con sé.

Torniamo alle “origini”. Quanto pensi abbia influito sulla tua formazione l’essere nata in luoghi dove la natura riveste un ruolo importante? La vicinanza alle foreste Casentinesi, per esempio quanto può contare nello sviluppo di un talento? Ti faccio una domanda oziosa: La tua voce così potente che spesso si avvale di assenze di scenografie avrebbe avuto le stesse caratteristiche tu fossi cresciuta in luoghi lontani dalla spiritualità e dalle forze naturali?

«Il corpo è il tempio della voce. Ogni voce ha la sua grana. La mia è primitiva, rozza, aspra, penetrante, acuta, sottile, roca, grave. Mi ribello alla sua naturale dolcezza, non la posso addomesticare. Dalla cultura contadina in cui sono stata allevata viene il sentimento trascendente che accompagna il mio rapporto con il linguaggio e con il suono. Nella creatura che viene al mondo le impressioni s’imprimono in maniera indelebile nei sensi e nello spirito e costituiscono l’alfabeto con cui in seguito l’adulto leggerà la vita, gli amori, l’arte. L’appartenenza appartiene all’amore e per quanto mi riguarda coincide con il luogo di nascita. Ricordo quanto smaniavo la domenica pomeriggio in attesa di entrare nel teatrino scuro e polveroso delle suore che ingoiava la mia vita adolescente, nelle pause consumate sotto il chiostro dalle forme snelle ed eleganti lo sguardo poteva spingersi fino ai lontani monti dell’Appennino, il respiro dato dalla lontananza delle balze era reso da una gamma delicata di gradazioni azzurrine, la crudezza netta della luce pomeridiana sdolcava nell’evanescenza dolcissima del tramonto e rendeva lampante l’abilità impareggiabile, la grazia operosa di generazioni di esseri umani che nella valle sottostante tutti i giorni con caparbia pazienza avevano manipolato amorosamente le zolle. Il sigillo della valle d’origine è impresso negli organi e nelle cellule e il mio essere sulla scena porta l’impronta di quelle bifolche umanissime genti bestemmiatrici, costituzionalmente ruvide e anarchiche. La prima volta che vidi il monastero e l’eremo di Camaldoli capii che avevo trovato un luogo del cuore, mi sembrò miracoloso quel piccolo Tibet coperto di neve a due passi da casa, mi colpì profondamente la rarefazione del luogo, e mi sfiorò addirittura l’idea della vita monastica, in seguito ho avuto l’agio di scoprire insieme a Sandro Lombardi il silenzio della foresta, gli abeti bianchi con la loro severa struttura a colonne che spinge inesorabilmente verso l’altezza. Questo è un luogo dove la voce viaggia. La voce ha qualità femminili, la grana attinge alle impressioni attinte nell’infanzia. In Val di Chiana “mugghiare”, cioè il muggito inteso e prolungato delle vacche definisce negli umani un dolore insopportabile, sottolineo il viaggio mentale necessario a individuare il suono nella parola. A casa mia nei lunghi inverni accanto al fuoco le donne facevano la maglia e nell’apparente passività le mani si muovevano con abilità prodigiosa, io sognavo… desideravo… volevo catturare uno spasimo che potesse spararmi come un proiettile verso il cielo. In Val di Chiana l’inverno era fatto d’attesa dentro stanze marmate e i vetri delle finestre morsi dal freddo, invetriata dal gelo la terra dormiva avvolta in filigrane di brina, il gelo trafiggeva con spietati spilloni fili d’erba e foglie, passeri zampettavano alla ricerca del cibo e i geloni davano il tormento agli umani. La stalla riscaldata dai vapori del letame e dal fiato delle vacche era il centro propulsore della vita, in alcune case vi si poteva accedere tramite una botola e una traballante scala di legno che metteva in comunicazione stalla e cucina. La discesa degli umani disturbava il ruminare dei grandi quadrupedi avvolti nel vapore animale, le vacche inquiete e con i fianchi bianchi bollati dagli escrementi scalpitavano dolcemente sugli zoccoli. Dallo spacco scuro in mezzo ai fianchi rotondi colava a tratti un liquido dorato e fumante che sciabordava sul pavimento evocando echi marini, il liquido filtrato dalla paglia scorreva nella canalina di coccio nel pavimento, infine defluiva nella concimaia in cui trasmutavano gli scarti e i prodotti degli umori più riposti. La concimaia era un luogo graveolente delegato alla fermentazione e alla disgregazione della materia, d’inverno fumava e vaporava, la geografia infantile ne coglieva il rischio e tutta l’aurea simbolica. La stalla ospitava solo femmine e i vitellini, i tori, i riproduttori erano custoditi nelle fattorie padronali. Sotto le volte situate a lato della stalla ricoveravano il fieno e l’erba fresca, nelle gabbie di legno prosperavano i conigli, creature timidissime in continuo allarme per la presenza umana. Scrutavo nei loro occhi rossi inquieti e guardinghi le reazioni dettate dalla paura, il corpo nervoso e teso e gli occhi tenevano caparbiamente sotto controllo il predatore umano. Il fuoco ardeva cangiando sotto la rotonda pancia di ferro della corpulenta caldaia che borbottando eruttava fumo e calore, nel suo ventre capace transustanziava acqua e rape, – cibo per i maiali. – La stalla era scura, calda, satura dell’afrore inebriante di fiori recisi, merda e piscio. L’umidità stillava dalle pareti, le bianche concrezioni di salnitro cristallizzavano e velavano i possenti muri di pietra, opulente ragnatele dispiegavano ardite vele tra le volte, appesi ai ganci di ferro mazzi di ginepro contro le streghe e qualche straccio rosso contro il malocchio mischiate alle immagini della Madonna, San Giuseppe e Gesù. Nell’afrore di questo utero odoroso la mia voce ha preso consistenza e coscienza. In teatro quando la macchina attoriale brucia sintonizza la respirazione dell’anima con quella del corpo, e l’attore apre al sentimento, il corpo pensa e il cuore come una vera e propria cinghia di trasmissione pompa copiosamente sangue, chiede ossigeno, il ritmo del respiro entra in sintonia con quello del cuore per  articolare compiutamente la parola, a questo punto bisogna separare e l’attore apre l’anima alla comunicazione, palleggia la parola a mezz’aria e la parola sospesa sopra bollenti correnti contrapposte e resa plasmabile e dinamica si muove secondo le direzioni indicate dal desiderio. Bisogna respirare la parola nel momento in cui emozione e razionalità prendono atto della sua composizione, bisogna accogliere il respiro quando la mente trova asilo nel cuore.»

I personaggi femminili a cui ti sei sentita più vicina?

«Scriveva Artaud: “Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle.” Più che parlare di “personaggi” vorrei parlare dei processi per arrivare al teatro che ho in mente, un percorso percettivo che porta allo stato visibile l’invisibile. Ho imparato tutto negli anni giovanili, l’età affina e precisa i processi. Nella prima fase simbolica emergevano personaggi tratti da un repertorio di leggende e miti appartenenti al patrimonio del proprio inconscio e di quello collettivo, il corpo era celato sotto strati e strati di stoffe, seguì la fase analitica dove il corpo era funzione dello spazio, il corpo spogliato di ogni rivestimento era indirizzato a compiere semplicissime azioni di occupazione dello spazio. In queste condizioni per effetto di un lavoro di continua sottrazione, in una condizione di totale azzeramento nel calderone emotivo nell’attore poteva scorrere sotterranea la temperie di una Clitennestra o di una Medea muta, questo lavoro di affioramento sulla pelle mi ricorda Kafka della Colonia penale e l’erpice che scrive la condanna sulla pelle del condannato. Non mi pronuncio sui “personaggi” che ho amato perché li ho amati tutti in ragione di quello che imparavo attraversandoli, importa di più sottolineare un modo di stare sulla scena, amo la recitazione invisibile che agisce sotto la pelle ed è indirizzata alla sottrazione e al contenimento dell’espressione tanto nella gestualità quanto nella mimica facciale. Uno sforzo continuo di contenimento della ridondanza espressiva per esaltare solo pochi tratti incisivi come nelle maschere del teatro No. In fondo si può comunicare uno stato senza muovere un muscolo, questo bisogno anima la mia ricerca del senso attraverso il corpo e la voce, si tratta di risignificare la carne attraverso quella che io chiamo la presenza in assenza.»

Quanto può o non può essere pressante il ritorno alle origini?

«Nella foresta di pietra in cui vivo, – la città – la nostalgia per il luogo di nascita è fortissima, ma sono consapevole che è impossibile tornare nel favoloso mondo dell’infanzia e che nel mondo globalizzato non c’è un luogo dove mettere radici, quel mondo favoloso vive solo nella cella della mia memoria. L’unica cosa di cui non posso fare a meno è cielo e la luce.»

Ti faccio una domanda che faccio a tutti i protagonisti di Incontri Ravvicinati: che cosa è per te la felicità?

«Alla mia età la felicità è l’assenza del dolore. Ma la vera felicità è data della piccola mano di mio nipote che cerca la mia.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Daniela Tani
Laureata in Lettere moderne, insegna Lingua e letteratura italiana. Ha pubblicato: L'ospite cinese, Del Bucchia Editore, 2013. Kebab per due, Autodafè, 2015. D'amore e d'altro, Alter Ego, 2017 recensito da Valerio Aiolli su Il Corriere della sera di domenica 4 agosto 2019. L'amico di lei, Smith Edizioni, 2020. Ha frequentato in varie sessioni i corsi e e le Full immersion della Scuola di scrittura Omero di Roma. Collabora alla rivista “Accademia Casentinese” “Giornale di Lettere, Arti, Scienze ed economia” con articoli riguardanti le scrittrici italiane del '900. Per “Achab” è in uscita il suo articolo su Pier Paolo Pasolini “Al cuor non si comanda”. Conduce corsi di scrittura creativa patrocinati da Enti pubblici e associazioni, in particolare Fondazione Circolo Rosselli, Comune di Pratovecchio-Stia (AR). Vive tra Firenze e le Foreste Casentinesi.

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