Sant’Antonio Abate (251 – 356), considerato l’iniziatore del monachesimo, nacque a Coma, nel cuore dell’Egitto; a vent’anni si ritirò a vivere nel deserto e poi sulle rive del Mar Rosso, dove condusse vita anacoretica per più di 80 anni. Ciò che conosciamo della vita del santo, del quale ricorre la memoria liturgica il 17 gennaio, è custodito nelle pagine della Vita Antonii scritta nel 357 da sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo. Nel 561 fu scoperto il sepolcro di sant’Antonio e le reliquie cominciarono un lungo viaggio: da Alessandria a Costantinopoli, fino ad arrivare in Francia, nell’XI secolo, a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in onore del santo originario dell’Egitto. In questa chiesa affluivano, a venerarne le reliquie, folle di malati, affetti soprattutto da ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale, usata per fare il pane. Il morbo, oggi scientificamente noto come herpes zoster, o fuoco di Sant’Antonio, era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” (fuoco sacro). Per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e venne fondata una confraternita di religiosi, l’antico ordine ospedaliero degli ‘Antoniani’ nel villaggio di Saint-Antoine de Viennois. Gli antoniani curavano i malati con un preparato ottenuto mescolando grasso di maiale con altre sostanze; da qui la pratica di allevare questi animali e per questo motivo Papa Urbano II (1088-1099) che aveva approvato il nuovo ordine, confermato poi da papa Onorio III con una bolla del 1218, accordò agli Antoniani di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità. Così questi animali potevano circolare liberamente ed erano riconoscibili per una campanella appesa al collo che diverrà un simbolo attribuito al santo dalla devozione popolare. Ed è a seguito della possibilità di allevare maiali da parte degli Antoniani che si deve l’immagine di Antonio protettore degli animali domestici. In sintesi, tra sant’Antonio Abate e gli animali vi è un legame che dal Duecento circa, costituisce un topos narrativo e iconografico. Da tutto ciò nasce la tradizionale benedizione degli animali che avviene il 17 gennaio, giorno in cui si dice che gli animali riescano a parlare; essendo poi il santo associato al fuoco, nel giorno della sua memoria liturgica, è tradizione accendere fuochi, i falò di sant’Antonio. Tra gli attributi del santo ricordiamo oltre al fuoco e alla campanella, anche il bastone a forma di Tau, tradizionale oggetto degli eremiti. A Terrossola, paese del Comune di Bibbiena sopra l’altare della chiesa dedicata ai Santi Matteo e Bartolomeo si trova una tavola dipinta a tempera datata 1497, attribuita al pittore fiorentino Bernardo di Stefano Rosselli (1450 – 1526) dalla studiosa Anna Padoa Rizzo. Il dipinto raffigura la Madonna con Bambino in trono affiancata da coppie di santi ai due lati: Antonio Abate e Matteo a sinistra, facilmente identificabili per gli attributi del maialino e dell’angelo e a destra Francesco e Sebastiano. La presenza di San Matteo è dovuta al fatto che il santo è titolare della chiesa, l’assenza nella tavola di san Bartolomeo invece trova la sua spiegazione nel fatto che, solo dal 1787 questo santo è diventato contitolare, per volere del vescovo di Arezzo Niccolò Marcacci che riunì alla chiesa di Terrossola quella di Casalecchio. Sant’Antonio Abate, con abito nero e mantello marrone, è riconoscibile per il suino accovacciato ai suoi piedi: si tratta della cinta senese? Il colore rossiccio del suo mantello non corrisponde a quello nero che caratterizza solitamente questo animale dalla banda di pelo bianco che lo cinge; inoltre la zanna ricurva verso l’alto è caratteristica del cinghiale mentre la coda a ricciolo è tipica del suino; insomma una specie tutta da indagare. Altro elemento iconografico caratteristico dell’anacoreta, è il bastone a forma di tau la cui forma richiama la lettera finale dell’alfabeto ebraico che allude alle ultime cose del mondo e al destino. La scena, che può definirsi una Sacra Conversazione, si svolge in un ambiente con una pavimentazione a decori geometrici che sottolineano l’utilizzo della prospettiva lineare; il parapetto, realizzato con riquadrature che ricordano le marezzature del marmo, divide l’ambiente dallo sfondo che presenta tre tipologie di piante dal profondo significato simbolico: palme, melograni e arance. L’artista, sfruttando composizioni di stampo lippesco e baldovinettiano, ripropone certi stilemi nella conduzione dei volti, e nei paesaggi tersi e nei marmi luminosi, si possono leggere indizi di un’educazione tra Neri di Bicci e Cosimo Rosselli in uno stile imbevuto ancora in parte dagli ideali della pittura di luce, pittura caratterizzata proprio dalla passione per le superfici smaltate, per i colori brillanti, per la prospettiva matematica: una nuova visione, più distesa e ottimistica, in cui i colori si imperlano di luce e la prospettiva diventa uno spettacolo per gli occhi. Cugino del più noto Cosimo Rosselli, Bernardo, si formò alla bottega di Neri di Bicci, del quale fu continuatore nello stile e abile prosecutore della tecnica disegnativa artigianale, caratterizzata dall’uso di una linea di segno incisivo e sintetico che caratterizza espressivamente i volti dei personaggi e che costruisce geometricamente le ambientazioni. La tavola di Terrossola è caratterizzata dallo stile attardato ma accuratissimo del pittore che nell’esatta riproduzione dei dettagli e nei particolari all’antica del repertorio decorativo, si rivela perfettamente aggiornato al gusto del suo tempo. Le reminiscenze classicheggianti presenti nelle decorazioni delle spalliere del trono e del muro, hanno fatto supporre ad alcuni studiosi un viaggio a Roma del pittore, città nella quale sarebbe entrato in contatto con l’arte antica. Come il suo maestro Neri, Bernardo era avvezzo a policromare stucchi e terrecotte degli scultori contemporanei con i quali deve aver intrattenuto rapporti ricavandone importanti suggestioni compositive, evidenti in questa tavola come ad esempio nel trono o nelle decorazioni a candelabre della cornice.
L’iscrizione dedicatoria che corre lungo il margine inferiore della tavola ci informa sulla committenza della stessa. Fino ad oggi si è ipotizzato, con una lettura affrettata, che il donatore fosse Vannuccio di Vannuccio, raffigurato di profilo in basso in primo piano in vesti da pievano. In realtà una più precisa decifrazione dell’iscrizione mi porta ad affermare che i committenti (utilizzo il plurale perché nella prima parte dell’iscrizione è presente un verbo, erroneamente scritto senza H, ANNO, presuppone un soggetto di terza persona plurale) siano stati gli eredi di Vannuccio di Vannuccio (LEREDE = GLI EREDI) che con questa opera avevano sicuramente ottemperato ad una disposizione testamentaria di Vannuccio stesso. La ricerca attenta e l’analisi dei particolari in ogni dipinto, riserva sorprese che contribuiscono ad una conoscenza più approfondita e più vicina alla verità storica.