Abbiamo deciso di dedicare una rubrica a voi casentinesi; a chi ama questa vallata così tanto da dedicarle una storia, una poesia, un racconto. Brevi o lunghi testi che inseriremo tra i nostri articoli online (o nella rivista) e che contribuiranno a elogiarne la bellezza, così come la cultura, la storia e le figure importanti che l’hanno vissuta e che la vivono ancora. Nomi, luoghi, aneddoti, storie vere o inventate che coloreranno le nostre pagine e doneranno un qualcosa in più alla nostra valle. Scriveteci, dunque, fateci leggere e apprezzare le vostre parole e noi saremo contenti di pubblicarle.
Ecco un altro racconto della nostra lettrice Daniela Tani…
(La storia, pur basandosi sull’esistenza reale del convento e sull’esistenza reale delle sue abitanti per la maggior parte straniere, è scaturita solo e soltanto dalla fantasia dell’autrice)
Al convento
di Daniela Tani
Guidava lei. La macchina arrancava sulla salita tra i boschi. Negli spiazzi laterali, sulle grandi curve, erano accatastati i tronchi di alberi tagliati per la legna invernale; questo pensavo chiedendomi a cosa altro potessero servire se non ad essere fatti a pezzi giusti per un caminetto o una stufa. Viaggiavamo con i finestrini spalancati, il caldo di fine giugno non ci convinceva però ad accendere l’aria condizionata. La decisione di salire su al convento per fare visita alle “suorine” era partita da me, l’ultimo giorno di scuola, quando le due suore indiane ci avevano omaggiato di fiori di carta colorata, tutti arricciati e perfetti nella somiglianza a fiori veri: un mazzo per me e un mazzo per lei. La mia collega, trapiantata dal sud per una supplenza annuale, non conosceva praticamente niente dei territori toscani e tutto le sembrava vicino e lontano, confondeva i nomi delle località, a volte li scambiava per nomi di strade. Quando io avevo proposto di andare al convento di Casalino, lei aveva esclamato allarmata: – E come ci andiamo? –
– Con la macchina, con la mia macchina – avevo risposto ridendo.
Le due suore indiane, vestite con l’abito scuro francescano, minute, con gli occhietti vivaci, ci avevano guardato sorridenti e avevano ripetuto, tutte e due insieme: – Vieni maestra, vieni – con quel loro italiano a cui mancava ancora la flessione del verbo e la differenza fra singolare e plurale.
– Noi cucina riso per te – avevano aggiunto, non in coro ma a ripetizione una dietro l’altra.
Così, una volta terminate le riunioni e tutti gli adempimenti di fine anno scolastico, avevamo deciso di partire da Arezzo per Casalino, un borgo in mezzo alle foreste casentinesi, il cui nome ne faceva già presagire le dimensioni. Non ricordavo di esserci mai stata.
La mia collega si era vestita con un paio di pantaloncini corti e una camicia lunga fino a metà coscia, sembrava che sotto la camicia non avesse nulla e ogni tanto mi chiedeva se potesse andare bene vestita in quel modo. Io avevo indossato un vestitino scollato e corto: faceva troppo caldo per pensare a non urtare la sensibilità delle suore.
– In fondo la scuola è finita – ripeteva la collega – loro sono suore ma noi siamo libere cittadine.
La strada saliva, io avevo impostato Google maps sul telefono ma le indicazioni sembrava che ci mandassero in una direzione sbagliata. Stavamo facendo dei grandi giri attraverso stradine secondarie e speravamo di incontrare almeno qualcuno per chiedere quale fosse la strada per Casalino. All’improvviso un uomo su un trattore sbucò da una strada che aveva l’indicazione “Cimitero”.
– Mi scusi, è giusta la direzione per Casalino? – chiesi con la testa fuori del finestrino e facendogli cenno di fermarsi.
– A dritto per un chilometro, signorine, ma chi cercate?
– Andiamo al convento.
– C’è ancora qualcuno al convento?
– Sì, sicuramente ci sono due suore indiane che abbiamo avuto tutto l’anno a scuola.
– Io non ho più visto nessuno al convento, da tanto tempo.
– Lei abita a Casalino?
– No, ma ci passo con il trattore per andare alle mie terre sotto Valagnesi.
– Allora non avrà visto bene, le suore ci hanno dato l’indirizzo del convento – risposi io un po’ irritata, ma anche preoccupata di aver fatto quella strada inutilmente.
La mia collega lo ringraziò, poi lo sorpassò e guidò verso quello che doveva essere il paese in cui si trovava il convento.
Le prime case in pietra ci apparvero sulla sinistra, la mia collega ripeteva che sperava di trovare un tabacchi per comprare le sigarette.
– In convento non si fuma, lo sai vero? -. E lei mi diede un’occhiataccia dicendomi che avrebbe fumato prima di entrare.
Salendo ancora con la macchina arrivammo al centro di una piazzetta con una fontana, alcune vecchie case vi si stringevano intorno, una strada scendeva giù verso quello che forse era il resto del paese. Parcheggiammo e ci accorgemmo di essere proprio sotto la chiesa.
– Allora il convento sarà qui! – esclamai contenta.
La mia collega disse che in ogni caso lei sarebbe andata a cercare un tabacchi.
Mi sedetti sulla panchina di fianco alla fontana, due uomini molto anziani sedevano all’ombra di un grosso albero sulla panchina dalla parte opposta.
Non conoscevo Casalino, ma anche restando lì ferma su quella panchina, avevo l’impressione che le vecchie case in pietra non fossero supportate da nessun negozio e che i pochi abitanti, se c’erano, rimanessero fermi come tanti personaggi del presepe. Non volevo inoltrarmi lungo la strada che scendeva giù perché il giorno prima mi ero fatta male a una caviglia correndo al parco e cercavo di fare meno sforzi possibile.
– Qui non c’è niente! – brontolava la mia collega mentre risaliva verso la piazzetta – dove mi hai portato! Nemmeno fumare posso! -.
Rideva ma aveva la faccia un po’ contrariata.
– Cerchiamo l’ingresso del convento! – dissi guardando nella direzione dei due uomini sulla panchina.
Uno di loro, facendo un cenno con la mano, ci disse di passare dietro la chiesa e, muovendo il pugno chiuso, ci suggerì di bussare alla porta.
La mia collega sventolava la camicia verso la sua faccia mostrando le belle gambe nude e abbronzate.
– Facciamo anche questa – disse – poi ce ne andiamo al mare -.
Ci avviammo verso un viottolo che saliva costeggiando i muri della chiesa, oltre un cancello di ferro arrugginito si potevano vedere delle enormi piante di zucchini e una fila di cannicci su cui si arrampicavano piante di pomodoro. Un grande portone con due borchie di ferro con la testa di leone rimaneva chiuso davanti a noi che avevamo suonato il campanello a turno. Giù in basso, oltre la strada, c’era un campetto di calcio deserto.
Poi un trambusto all’interno come di sedie spostate ci annunciò che qualcuno stava arrivando.
– Buongiorno maestre, le suorine vi stanno aspettando – esclamò accogliendoci con un sorriso la vecchia Madre superiora, tutta vestita di bianco.
Faticavo a riconoscerla perché erano passati molti mesi da quando lei aveva accompagnato a scuola le due suore per iscriverle al corso di italiano. Adesso era vestita di bianco mentre io me la ricordavo con il vestito scuro.
A ottobre, in piedi sulla porta dell’aula, la Madre le aveva presentate come “le suorine indiane” che dovevano almeno imparare qualche parola, visto che sarebbero dovute rimanere in Italia per i prossimi tre anni. Le chiamava “suorine” forse perché erano magre e basse di statura. Avevo pensato che potessero essere gemelle, anche se i loro lineamenti erano diversi.
Le due ragazze, vestite anche loro di scuro, avevano sorriso muovendo leggermente la testa e mi avevano guardato come se io fossi la loro salvatrice.
– Sarà un grande sacrificio per noi accompagnarle a scuola tre pomeriggi la settimana, ma se non imparano a parlare che cosa ci facciamo con queste? -.
Avevo sorriso pensando al “queste” e avevo rassicurato la madre che avremmo fatto tutto il possibile. La mia collega mi guardava facendomi con gli occhi degli strani segni.
– Da Casalino a Bibbiena non ci sono molti chilometri però in inverno la strada è ghiacciata – si era lamentata la Madre superiora – e la nostra macchina è vecchia, ma faremo il possibile – ci aveva assicurato giungendo le mani per congedarsi.
Avevo fatto sedere le due suore nel primo banco mentre stavano arrivando anche gli altri studenti.
– Come facciamo con “queste”? – mi aveva chiesto la collega.
– In che senso?
– E qui teniamo tutti questi delinquenti – diceva sottovoce guardando i due minorenni albanesi che ci davano tanto filo da torcere – e poi ci sono i pakistani, maschi, tutti maschi sono -. Nonostante fossimo pagate per insegnare un italiano corretto lei non abbandonava mai il suo accento pugliese, oltre a sfoderare parole che con l’italiano avevano poco a che fare.
L’avevo rassicurata dicendole che eravamo solo all’inizio della scuola, qualche altra ragazza sarebbe arrivata e avremmo obbligato i ragazzi a rispettare le sorelle.
– Tutti in piedi quando entrano le sorelle, capito? – aveva gridato la collega ai tre senegalesi che stavano già seduti. Loro l’avevano guardata senza poter associare la parola “sorelle” alle suore. Quando lei diceva qualcosa e gli studenti non capivano, guardavano me per chiedere delucidazioni.
– La maestra Isabella vuole dire che dovete rispettare le suore –. I pakistani mi avevano guardato scettici, in piedi, ma con le ginocchia piegate pronti a sedersi di nuovo.
– Avete capito? – aveva gridato di nuovo la collega. Gridava sempre come chi non è mai stato a contatto con gli stranieri e pensa di farsi capire alzando la voce.
Le suore avevano il sorrisino stampato sulle labbra ed erano imbarazzate.
– Non è necessario alzarsi – avevo spiegato guardando la collega – dovete solo trattare bene le due vostre compagne di classe, va bene? – Sottolineai il “va bene” fissando insistentemente gli albanesi. – Va bene? -.
La collega si era arresa a quella mia nuova disposizione, rispettava la mia anzianità di insegnante con il posto fisso. Non avrebbero dovuto alzarsi in piedi per salutare le suore, mi sembrava infatti che quella disposizione fosse eccessiva. Bastava che non si lanciassero oggetti, che tenessero in tasca i cellulari, che non uscissero nel corridoio senza chiedere il permesso, che non dicessero parolacce per far capire quanto fossero bravi in italiano. Ma queste erano le regole che avrebbero dovuto osservare indipendentemente dalle suore. Nei giorni seguenti, tuttavia, erano state le suore ad alzarsi in piedi quando entravamo in classe io e la collega.
Le suore tenevano i quaderni in ordine e avevano tutto l’occorrente per la scuola, agli altri mancava sempre la penna, la gomma, spesso arrivavano senza quaderno. La convivenza tuttavia era andata abbastanza bene: le due suore sorridevano sempre, i maschi le ignoravano. E siccome i pakistani le vedevano vestite di scuro con il capo coperto, credevano che fossero donne musulmane rispettose di Allah e proprio per questo non le guardavano mai in faccia e non rivolgevano loro nessuna parola. Non capivano nemmeno che fossero delle religiose. Le due suore provenivano dall’india del nord, al confine con il Pakistan, parlavano urdu come i pakistani, ma fra di loro non c’era nessuna comunicazione.
– Mai parlare donne – aveva sentenziato Ahmed.
– Mai guardo faccia donne – aveva esclamato orgoglioso Mustafa.
Per le suore si era presentato il problema del cognome: iscritte a scuola con il solo nome non avrebbero potuto fare l’esame senza il cognome. In un inglese zoppicante ci avevano spiegato che nel Punjab le donne o portano il cognome del padre o quello del marito, loro che erano sposate con Cristo avevano sul passaporto delle x. Stentavamo a capire tutta la storia, finché dalla segreteria non era arrivato il permesso per l’esame grazie all’intercessione di un prete.
Adesso eravamo entrate in un ingresso senza mobili con il pavimento di marmo. Un grande crocefisso era appeso sopra la porta che immetteva in una specie di salotto. La Madre superiora ci fece accomodare intorno a un tavolo al cui centro, in un vaso, c’era lo stesso tipo di fiori di carta che le suore avevano regalato a noi. Le suorine non erano ancora comparse, una vecchia suora, vestita di scuro, venne verso di noi sorridendo con la bocca sdentata.
– Che piacere avervi qui, le suorine ci hanno tanto parlato di voi! -.
Mi alzai allungando la mano per stringere quella della suora e mi venne il dubbio che non fosse il saluto giusto, ma lei prese la mia mano fra le sue e mi disse di stare comoda. La mia collega andò verso di lei e le stampo’ due baci sulle guance, la Madre superiora applaudì.
Le suorine, anche loro vestite di bianco, come a scuola facevano tutto in coppia e compivano sempre gli stessi gesti, arrivarono ognuna con un bicchiere di acqua appoggiato su piccolo vassoio il cui centro aveva una tovaglietta bianca fatta con l’uncinetto.
– Bevete, sarete accaldate – diceva la Madre – dopo passiamo in refettorio dove vi aspetta un bel pranzo! -.
Io dissi che non c’era bisogno che loro si scomodassero in quel modo, in fondo si trattava solo di una visita di saluto, ma le suore, vecchie e giovani, tutte intorno a noi, sembravano veramente felici che noi fossimo lì. La mia collega fremeva per allontanarsi e controllare il cellulare, sentivo la sua smania e mi veniva da ridere. Anche a scuola non resisteva più di dieci minuti.
– Posso andare in bagno? – chiese come una scolaretta timida. E subito una delle suorine le fece strada verso l’ingresso.
Intorno al grande tavolo c’erano delle sedie imbottite e una bella e antica credenza mostrava tazzine e bicchieri ben disposti su ripiani ricoperti di tela bianca traforata e ricamata. Era tutto così curato e perfetto, con i finestroni in legno dai vetri pulitissimi, che per un attimo pensai alla pace che avrei avuto immersa in quelle stanze. Da una porta laterale entrò barcollando una suora molto vecchia vestita di scuro, con lo sguardo perso nel vuoto. Un’altra suora più giovane vestita di bianco la sorreggeva per un braccio.
– E questa è suor Maria – disse la Madre – ma con la testa ormai non c’è più -.
La suora si sedette mentre cercava di liberarsi dal braccio della suora più giovane, biascicava delle parole di cui non si capiva il significato.
– Quando rientra la sua collega dal bagno andiamo tutte in refettorio – annunciò la Madre mentre si avviava verso una porta da cui usciva un buon odore di sugo.
Sentimmo uno scampanellio che ci chiamava tutte a tavola. – A tavola, a tavola – canterellava suor Maria – e così entrammo in uno stanzone con i tavoli disposti a ferro di cavallo.
La mia collega era arrivata tutta pimpante, mi diceva qualcosa muovendo solo le labbra e io non capivo, ma quando faceva così, di solito mi stava aggiornando sulla sua storia con un ragazzo croato che aveva conosciuto in discoteca e che la teneva un po’ sulla corda. Guardavo la sua bocca e mi sembrava di leggere “Stasera”, lo avrebbe visto la sera.
I nostri posti erano indicati con due vasetti di fiori, le suore più anziane insieme alla Madre erano sedute sul lato opposto del ferro di cavallo, le due suorine rimanevano in piedi per servire a tavola, seduta sul nostro lato c’era la suora che aiutava suor Maria, ma si spostò quasi subito per andare ad aiutarla mangiare. Chiesi chi avesse cucinato tutte quelle buone cose e le suorine risposero insieme “noi”. Io presi il riso Biryani buonissimo e anche le melanzane alla parmigiana. Avevano preparato la pasta, pensando a noi italiane, ma io preferivo il riso e la collega cominciò a dire che lei era a dieta e non poteva mangiare tutte quelle cose.
– Un’insalata – diceva – mi basta un’insalata – e io le davo qualche gomitata perché la smettesse di fare la difficile ma lei ribadiva di essere fatta così, mangiava poco, lei. Le suorine mortificate sparirono per tornare con due ciotole di insalata, una per me e una per lei, e riportarono in cucina la grande zuppiera di pasta al pomodoro. Io dissi che non avremmo mangiato se le suorine non si fossero sedute e loro si sedettero e dissero una preghiera prima di cominciare a mangiare. Le altre suore mangiavano in silenzio, la mia collega sbirciava il telefono sotto il tavolo.
– Ma come fate – dissi – a mantenere questi vestiti così bianchi, con tutte queste pieghe?
– Con la macchina – rispose una delle due suore indiane, poi stirare. Vestito bianco è per casa.
– Gli indiani sono bravissimi a stirare! – sottolineai io per compiacer le suore, poi chiesi chi si occupava dell’orto e rispose la suora più giovane spiegando che suo padre aveva la terra e lei aveva imparato tutto da lui.
– E dove ha la terra? – chiesi.
– In Sardegna.
– Lei è sarda?
– Sì – rispose, senza aggiungere altro.
La conversazione languiva; eravamo tutte distanti, sedute a quei lunghi tavoli. La Madre ci ringraziò perché adesso le suorine parlavano poco ma capivano molto di più; io, tanto per dire qualcosa e per vedere la reazione delle suore mi scusai dicendo che noi ci eravamo vestite un po’ troppo “nude” ma faceva caldo e loro potevano capire. Le suore ridevano e ci guardavano, Suor Maria cantava mentre la suora più giovane cercava di farla mangiare, ma lei le dava dei colpi sul braccio e il riso schizzava da tutte le parti.
Domandai alla Madre perché in un convento così grande ci fossero poche suore e lei rispose che sarebbero arrivate altre suore dalle Filippine, così le avrebbe portate da noi per imparare l’italiano.
Una delle suorine mi chiese se volevo ancora riso, la mia collega sbirciava nel mio piatto e mi chiese come fossero le melanzane, io la invitai a prenderne un po’ dal vassoio che l’altra suora ci stava porgendo, ma lei rispose che c’era troppa salsa.
Alla fine, quando tutti i vassoi furono portati via dalle suorine, la Madre superiore arrivò con una grande confezione di gelato al cioccolato e crema e lo distribuì nelle ciotoline di vetro, la mia collega disse che ne voleva tanto.
– Non è tutti i giorni così – disse la Madre – ma oggi è un giorno speciale! – .
La suora sdentata sorbiva il gelato chiudendo gli occhi, le suorine, ritornate dalla cucina, mangiavano il gelato a piccoli bocconi, per farlo durare di più, pensai io.
La mia collega, dopo l’insalata, si stava strafogando di gelato, ma non dimenticava di farmi capire che aveva voglia di fumare.
Quando ci alzammo per salutare le suore, erano le tre del pomeriggio, le baciammo tutte e tutte ricambiarono. La Madre ci invitò a tornare di nuovo e ci mise in mano, uno a me e uno a lei, un piccolo tubo avvolto in carta da regalo.
– Lo aprite quando arrivate a casa – ci suggerì.
La collega tirò fuori il telefonino e chiese a tutte di mettersi in posa per una foto, lei si mise in mezzo alle suorine e chiese a me di scattare, poi io le presi a braccetto e lei scattò.
Non appena il grande portone si chiuse dietro di noi, scartammo subito i regali: si trattava di due centrini fatti con l’uncinetto, il mio azzurro, il suo rosa, inamidati e arrotolati.
– Facciamo a cambio – propose la collega – cusse stè proprii brutto!
Tornammo a valle in cerca di un tabacchi e poi verso Arezzo. Stava cominciando l’estate.