“Mettiti seduto che adesso imparerai qualcosa”, intima il vecchio Jack Crabb a chi gli chiede del Popolo degli Uomini: il nome, voluto per sé, dai Cheyenne. Comincia così il capolavoro di Arthur Penn (Piccolo Grande Uomo) che, dopo più di due ore di proiezione, si conclude con un epitaffio: “Questa è la storia del Popolo degli Uomini (Human Beings), a cui fu promessa la terra dove avrebbero vissuto in pace. Una terra che fosse loro, finché l’erba cresce, il vento soffia ed il cielo è blu”.
Naturalmente, Piccolo Grande Uomo, è una finzione filmica e, al contempo, un documento storico. Come documento storico, il film del 1970, segna, insieme a Soldato Blu, il ribaltamento della prospettiva storica sulle c.d. Guerre Indiane che, fino ad allora, pretendevano gl’Indiani “cattivi” ed il Gen. Custer “buono”. Ancora nel 1968, al botteghino di Hollywood, aveva spopolato un titolo eloquente: Custer of the West (Custer Eroe del West). Di Custer of the West, naturalmente, non sapete neppure che sia mai stato girato: per il fatto ovvio che siete (siamo) figli della prospettiva di Arthur Penn.
La prospettiva di Arthur Penn, ancorché fittizia, non manca di riferirsi alla realtà fattuale. Little Big Man, ad esempio, è stato un capo Lakota (Sioux) e l’epiteto “finché l’erba cresce, il vento soffia ed il cielo è blu” è effettivamente scritto in un atto legale: l’Indian Removal Act.
Con l’Indian Removal Act, il Congresso degli Stati Uniti aveva ratificato la deportazione forzata dei c.d. “indiani civilizzati” (così detti, forse, perché disponevano di schiavi) dal sud degli States verso la “nazione indiana”: una serie di enclave, più ad ovest, che noi conosciamo col termine di “riserve indiane”. Una terra che fu promessa e tutelata, dal Congresso ai capi tribù, per sempre: ovvero, come riporta il documento, “as long as grass grows or water runs” (finché l’erba cresce e l’acqua scorre).
Ecco.
A prescindere dalla retorica, anche quella di Arthur Penn che descrive Custer come un pazzo ed il VII cavalleggeri come una banda di criminali, il giudizio insindacabile della storia condanna le Guerre Indiane come un atto di prevaricazione e sopruso: perpetuato dal Congresso degli Stati Uniti d’America nei confronti dei Nativi Americani. La pietra angolare per derimere la questione, prescindendo dalle nefandezze che accompagnano la guerra da ambo le parti, è un documento legale col quale, al prezzo di una deportazione (il c.d. “sentiero delle lacrime”) veniva stabilita e garantita l’inviolabilità del territorio istituito e riconosciuto come nazione dall’Indian Removal Act.
Bene.
Considerato l’adempimento dei Nativi di spostarsi “volontariamente” ad ovest, si erano posti in essere due fatti giuridici, impliciti nel trattato ratificato dal Congresso: il riconoscimento della sovranità di una Nazione e l’impegno a garantirne i confini, secondo un adagio che esprime un principio fondamentale del Diritto: pacta sunt servanda (“i patti devono essere rispettati”). Naturalmente, la guerra dichiarata da Custer alla Nazione Indiana si reggeva sulle atrocità (vere o presunte) perpetuate dai Nativi nei confronti dei cercatori d’oro e dei coloni “bianchi” che operavano “oltreconfine”: in nome, per intenderci, dei “diritti umani”. Non a caso, il brocardo latino (pacta sunt servanda), presuppone un limite implicito: rebus sic stantibus (“stanti, così, le cose”). Resta pacifico che, se la Nazione di cui sopra, travalica il confine dell’umano, intesi come “diritti umani”, il vincolo apposto da un trattato s’intende superato: così è stato nel caso delle Guerre Indiane.
In soldoni, le Guerre Indiane possono essere considerate l’antefatto delle Peace Keeping Operations, le “attività di mantenimento della pace”, con le quali abbiamo aggredito tanto l’Iraq quanto l’Afghanistan all’alba dell’attentato alle Torri Gemelle. Peace Keeping Operations, entrambe, per modo di dire: ché in Iraq od in Afghanistan non ci siamo curati neppure di dipingere i militari di blu! Di più: l’intervento in Iraq si è retto sulla menzogna delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (invece della vendetta del cow boy per com’era andata la prima crisi irachena, protagonista Bush padre) mentre i Talebani violavano i diritti delle donne (invece di rifiutarsi di consegnare Bin Laden).
Ora.
Questa sostituzione del diritto con la prevaricazione, sugli schermi internazionali, è un atroce spettacolo che abbiamo cominciato a proiettare, od assistere, dall’undici settembre del 2001 in poi: non lo dimentichiamo! Così, ad esempio, le II guerre in Cecenia ed in Georgia: quelle in cui abbiamo conosciuto Putin come il “difensore della cristianità” (Giorgia Meloni). Così l’intervento NATO in Libia, seguito da quello dell’IS a sua volta seguito da quello russo e turco: lo stesso schema, guarda caso, della crisi siriana (intervento americano, espansione IS, contenimento ad opera di turchi e russi). Il modello? Quello del Generale Custer, che diamine! Per questo, tanto per dire, non dovrebbe sorprendere il delirio propedeutico all’invasione dell’Ucraina da parte russa. A scanso d’equivoci, ve lo ricordo: nel Donbass non vengono rispettati i diritti delle minoranze (NDR: uno dei punti cardine del Memorandum di Budapest, di cui vi darò conto); tali minoranze, istituite a Repubblica, io le riconosco; queste mi invitano ad una peace keeping operation; io intervengo. Se non vi risulta nuovo, è lo stesso schema adottato per regolare i confini della Federazione Russa nelle regioni del Caucaso. Cerchiamo di capirci.
Dall’implosione dell’impero sovietico, che nessuno ha mai sconfitto propriamente se non nella propaganda, l’URSS si è divisa con una serie di trattati. Quello che regolava le relazioni fra Georgia e Federazione Russa, sortì da un conflitto: la I guerra in Ossezia. Di lì a poco, la stessa integrità della Federazione fu messa in predicato con la rivolta della Repubblica Cecena che si proclamò indipendente da Mosca e da questa fu riconosciuta dopo una guerra sanguinosa. La questione fu riaperta dal “difensore della cristianità” e, soprattutto, dal clima favorevole della “guerra al terrorismo” innescata dall’11 settembre. Per farla breve, Putin provvide a denunciare i trattati con Cecenia e Georgia: prima riconoscendo dei fantomatici insorti e, poi, intervenendo con una sedicente “missione di peacekeeping”. Negli almanacchi storici, naturalmente, si tratta della II guerra di Ossezia e della II guerra cecena: concluse con l’indipendenza dell’Ossezia dalla Georgia, una, e con la ri-annessione della Cecenia nella Federazione Russa, l’altra. Ovviamente, manu militari! La mano usata da Putin per regolare i confini europei, fino ad ora, non aveva previsto l’uso della forza: Janukovyč, in Ucraina, e Lukashenko, in Bielorussia, offrivano ampie garanzie.
Poi.
Poi, questi regimi speculari a quello di Putin, volgarmente note come “Democrature” (NDR: una via di mezzo fra una democrazia formale ed una dittatura fattuale in cui: le carte costituzionali sono mutevoli all’abbisogna, il broglio elettorale è la prassi ed il diritto si confonde con l’interesse legittimo, ed illegittimo) hanno cominciato a cedere. È la stagione delle c.d. “rivoluzioni colorate” del 2004 nei paesi satellite della Federazione Russa: Bielorussia, Ucraina, Georgia, Azerbaigian e Kirghizistan. Rivoluzioni, sia chiaro, tanto di popolo che non violente: come quella, ad esempio, andata in onda in Kazakistan appena un mese fa. Ebbene; di quelle andate in scena, solo quella “Arancione” (in Ucraina) e quella “Delle Rose” (in Georgia) sortirono gli effetti desiderati: l’avvicinamento dei due paesi ai sistemi democratici dell’Occidente. La cosa, naturalmente, apparve subito indigesta al dittatore russo che, non a caso, pose termine alla stagione democratica georgiana con una guerra speciosa (quella per l’Ossezia del sud nel 2008): finalizzata ad un cambio di regime, puntualmente avvenuto. Con Kiev, Putin, avrebbe voluto agire in termini speculari ed altrettanto manifesti (NDR: così, ad esempio, l’invito all’esercito ucraino di provvedere con un colpo di stato … per trovare un accordo): una guerra circoscritta al Donbass, la crisi del paese ed un golpe filo-russo.
Sappiamo bene, perché è la cronaca di oggi, che non è andata così: ma perché l’Ucraina e perché proprio adesso?
L’Ucraina, dopo la “rivoluzione arancione”, è stata trattenuta in prossimità della Federazione Russa (in termini di “amicizia”) con un ingente dispiegamento di risorse economiche che, per semplicità, potremmo chiamare PNRR (NDR: concedetemi la provocazione). L’economia di mercato, in Ucraina, per una ragione o per un’altra non ha mai dato frutti: ciò a dire che si basava più sulla rendita che sul lavoro: nel 2014 è arrivata al collasso. La ricetta di Janukovyč alla crisi del debito ucraino, in massima sintesi, si risolveva nell’accettare l’aiuto finanziario della Federazione Russa (NDR: con ciò a dire che i Russi ci provano ad imitarci): cosa che scatenò la reazione popolare. In breve, Janukovyč fu deposto ed il governo ad interim non è mai stato riconosciuto da Mosca. La Federazione Russa, dopo che il governo ad interim decretò la fine del bilinguismo (NDR: in Ucraina, fino al 2014, i documenti ufficiali erano scritti in Ucraino quanto in Russo), provvide l’invasione della Crimea. Nessuno, ça va sans dire, mosse una foglia. Contestualmente, nel 2015, l’Ucraina fece richiesta d’adesione alla NATO: richiesta che non è stata neppure presa in considerazione. La ragione è presto detta: l’Art. 5 prevede la cobelligeranza in caso di “attacco armato contro il territorio” di un paese membro. Capite bene che, in Ucraina, questa violazione era già nei fatti, per cui l’ipotetica adesione comportava la guerra, sic et simpliciter, fra la NATO e la Federazione Russa: così scemi, non siamo neanche noi! Resta pacifico che la svolta “democratica” di Kiev, ma meglio sarebbe dire la riviviscenza dell’autodeterminazione dei popoli (simpatici od antipatici che siano), è uno scacco mortale al sistema mafioso che regge Mosca.
Acquisito che il confine europeo era già da tempo nei piani del Cremlino, l’occasione propizia l’ha offerta una serie di circostanze. La prima, in ordine di rilevanza, è l’emergenza sanitaria che ha acuito le fragilità dei sistemi socio-politici di mezzo mondo. Lasciatemi spiegare. L’invariante topologica di ogni sistema sociale è una qualche forma di egualitarismo che, in ultima analisi, si risolve spesso nella semplice capacità di spesa. La pandemia ha aumentato la disuguaglianza sociale. La disugualità (volgarmente nota come ingiustizia) è meno tollerabile dalle democrazie delle democrature ma, comunque e sempre, è intollerabile. Le democrazie rispondono, solitamente, con una qualche forma di redistribuzione del reddito laddove, i regimi repressivi, aumentano semplicemente il limite della repressione: nella Federazione Russa, e regimi speculari, l’azione repressiva è aumentata costantemente raggiungendo, semplicemente, la dittatura. Questo aumento dei comportamenti repressivi è il segno tangibile dei sistemi socio-politici in crisi: la Federazione Russa ed affiliati lo erano già prima della pandemia. Quando non è possibile altrimenti contenere il malessere, la risposta ovvia dei sistemi politici è quello di offrire la “gloria patriottica”. Un fulgido esempio storico è stata la guerra nelle Falkland. I generali argentini, con la riconquista di un qualche scoglio sperduto nell’oceano, intendevano rinsaldare la coesione sociale: Maggy Thatcher non aspettava altro. Il Thatcherismo, qualunque cosa sia stato, ha preso le mosse da quel preciso momento storico: dalla vittoria militare a largo dell’Argentina. Lo spirito che aleggia in Europa, quanto nella Federazione Russa, è la ricerca di una vittoria gloriosa: figlia d’una aggressione o di una strenua resistenza, non importa. Detto questo, tutte le altre circostanze (crisi in Bielorussia, fuga dall’Afghanistan, trionfo di Aleppo, etc., etc., etc.), che pur ci sono, mi sembrano scivolare in un secondo piano.
Detto della complessità della crisi ucraina, i cui sviluppi sono imprevedibili ma tendono allo stallo in una lunga guerra di logoramento, cosa ne diranno gli storici di domani? A chi la ragione, ed il torto, qualunque sia l’esito finale del conflitto? E noi, adesso, in mezzo a qualunque distinguo, colpa o responsabilità: da quale parte dobbiamo stare?
Dobbiamo stare dalla parte del Diritto e non del Far West che, magari, abbiamo anche contribuito a creare.
In Europa, la sicurezza delle nazioni è garantita, in punta di Diritto, dall’OCSE (acronimo di Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) a cui partecipano, fra gli altri 57 stati, tanto gli Stati Uniti che la Federazione Russa. Scopo dell’OCSE è la prevenzione dei conflitti che, nella nostra Carta Costituzionale, corrisponde al precetto dell’Art. 11: quello che R-I-P-U-D-I-A “la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. L’attuale Segretario Generale dell’organizzazione intergovernativa è Helga Maria Schmid: l’avessi sentita parlare, magari, invece di Jens Stoltenberg! Macché!
Ebbene, l’OSCE era presente nel Donbass (l’ipotetico casus belli della guerra in Ucraina) già dal 2014: per far rispettare i termini del Protocollo di Minsk. Il Protocollo, firmato da Ucraina e Federazione Russa con la mediazione di Germania e Francia (il c.d. “formato Normandia”), prevedeva un cessate il fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l’impegno, da parte dell’Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Tre anni dopo, vale a dire nel report pubblicato nel 2017, gli inviati OCSE, preposti a vigilare sul rispetto degli accordi, si esprimevano così: “lungo la linea di controllo, che divide i separatisti dal resto dell’Ucraina, in tre anni di conflitto sono morte 10.000 persone”; “Invitiamo con forza la Russia a fermare immediatamente le offensive e i bombardamenti di Avdiivka e nell’intero Donbass”; “Entrambi i fronti sono pieni di criminali”. Le cose, naturalmente, sono andate avanti così mentre il mondo s’impegnava nella “guerra” al Covid.
Non faceva parte del Protocollo di Minsk, e non poteva farne parte, l’eventuale “indipendenza” delle regioni di Doneck e Lugansk a cui si stabiliva, di comune accordo, una sorta di “statuto speciale”: status, di fatto, mai concesso da Kiev ancorché obbligata dal Protocollo. Capite bene perché Helga Maria Schmid eviti d’esprimersi e quanto abbia funzionato la mediazione di Francia e Germania (il “formato Normandia”) che si è tentato di riproporre pochi giorni fa.
Fatti i dovuti distinguo, il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza delle repubbliche separatiste (Doneck e Lugansk) è un’aperta e conclamata violazione del Memorandum di Budapest del 1994. Col Memorandum, l’Ucraina si impegnava a restituire le 1.900 testate nucleari, ereditate dall’URSS, alla Federazione Russa e contestualmente aderire al Trattato di Non Proliferazione. In cambio, l’Ucraina, ha ottenuto la garanzia del rispetto de “l’indipendenza e la sovranità ucraina entro i suoi attuali confini” dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e …. dalla Russia! Successivamente, il Memorandum, è stato riconosciuto anche da Francia e Cina: anch’esse garanti dell’integrità e sovranità della nazione ucraina. Nessuno si è adoperato, in ossequio al Memorandum, quando Putin ha invaso la Crimea (2014): nessuno si cura di ricordare alla Cina l’impegno sottoscritto, adesso!
Va da sé che un mondo senza legge è il Far West: in cui si raccontano storie d’indiani, fuorilegge, generali e soprusi. “Questa è la storia de” l’Ucraina, “a cui fu promessa la terra dove avrebbero vissuto in pace. Una terra che fosse loro, finché l’erba cresce, il vento soffia ed il cielo è blu” … fino al giorno in cui il vento si placa, l’erba avvizzisce ed il cielo non è più blu.