“Chiedi alla polvere” (in ricordo di Massimiliano)

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1943

Si chiama così, Chiedi alla Polvere, il libro più noto di Jhon Fante. Il titolo allude agli okies (NDR: oki, nello slang degli anni ’30 erano i profughi dell’Oklahoma, i transfughi del mid-west, per estensione, fino ad intendere qualunque immigrato in California) che, come polvere sostenuta dal vento, si depositavano lungo le strade di Los Angeles. Joe Fante era uno di questi: un oki, incline alla narrazione. Se, quindi, non avevi provato il piacere di leggerlo, lo potevi confondere con un oki come un altro per via dei tratti, comuni e caratteristici, che dissolvono gl’individui nelle genti. Esattamente come succede coi patronimici. Magari vi sfugge, o banalmente non v’interessa, che Pancini sia un patronimico toscano: i successori di un certo “pancino” che ne sostenevano pregi e difetti per le generazioni a venire: i Pancini, appunto.

Con l’avvento dell’anagrafe, i patronimici si consolidarono in cognomi anche se, personalmente, non ho la minima idea di chi sia stato, se sia mai esistito, un tal “pancino”. So per certo, invece, che c’è stato un “chiappino” e che mio nonno, fra l’altro, non è stato neppure il primo. Per questo, il mio ramo familiare, è meglio conosciuto, in paese, come i “Chiappini”: con quella confidenza che si permette chi sa come sei anche se non ricorda il tuo nome di battesimo. A me, Andrea Pancini, è capitato spesso d’essere scambiato per mio cugino Massimiliano Pancini. L’adagio, più o meno, suonava così: “come ti chiami?”; “Andrea Pancini”; “il figliolo di Chiappino?”; “no, quello è mio cugino Massimiliano”. Per farla breve, ho sempre considerato Massimiliano il mio alter ego famoso di quella catena umana volgarmente nota come famiglia Pancini.

Adesso che Massimiliano non c’è più, non di meno insiste la catena che, ora più che mai, mi costringe alla memoria: una foto, in particolare, passatami qualche anno fa dalla mia cugina Carla. Si tratta dell’istantanea di Donella, Stefania, Fernando, Massimiliano, Gino, Fernanda ed Andrea: tutti, a vario titolo, legati a “Chiappino”. Non per questo è lecito aspettarsi che, ciò che segue, siano i Buddenbrook o che, davvero, chi vi scrive si possa paragonare a Joe Fante: niente di tutto questo. M’è piaciuto aprire le porte della mia memoria, per non dissipare quella di Massimiliano. Cosa ne risulta è quanto segue: non v’aspettate una facile lettura.

Chiappino è morto.

Chiappino era nato mezzadro, ai piedi di Memmenano, per inventarsi paesano, a Ponte a Poppi. “Galoppino” del Cavalieri, era finito a fare i mattoni alla fornace: caricando la caldaia a palate di carbone. Partiva prima dell’alba, con la bicicletta, il cappello ed il pastrano, per tornare a casa carico di polvere. È così che Chiappino aveva rilevato tre figli ed un tetto al civico 9 di Piazza Garibaldi, entro una vita spesa tra la Sova, CasalBeni ed il Piazzone: fra lo zio Milio e lo zio Bista.

Se Ponte a Poppi vi sembra Acitrezza, avete capito bene: anche se io non l’ho mai guardata da Catania. Io sono nato al civico 9 di Piazza Garibaldi, perché Chiappino, che al secolo suonava come Gino Pancini, era mio nonno. Avevo cinque anni quando Chiappino è morto per la prima volta. Mio padre era seduto con le spalle sul piatto e mia nonna (materna) mi chiese di non disturbare: “è morto il suo babbo”. Il “suo babbo” sarebbe stato il “mio nonno” ma, com’ho capito in seguito, l’affetto si nobilita col tempo. Di mio nonno ricordo gli occhi socchiusi ed il naso prominente, sopra una figura magra e longilinea: ricordo il carattere fumantino e la generosità di chi offre senza nemmeno chiedere. Ogni mese percepiva la pensione e la divideva fra i nipoti: quelli venuti per tempo, Stefania, Tiziana e Luca, e le vendemmie tardive: Io e Massimiliano.

Chiappino l’ho conosciuto bene.

Chiappino faceva l’artigiano e la fantasia l’aveva ereditata dal padre. Si chiamava Fernando, dato che la sorella era stata battezzata Fernanda. Esaurita l’elasticità consentita da un nome (vale a dire il declinarsi al maschile od al femminile) quando a Gino sopravvenne il minore, si pensò bene di conservare almeno l’iniziale: F-ernando, oltre a F-ernanda, aveva un fratello di quattordici anni minore, F-ranco. Franco era mio padre.

Chiappino faceva lo scalpellino entro una ditta dal nome scontato: Casentino, Pietre e Marmi. Agli albori, la ditta, si sosteneva sul nome e cognome ma, col passare degl’anni, s’è visto bene di chiarire dov’era e che cosa faceva. Lo scalpellino dei tempi che furono era, anche, un cavatore. Chiappino estraeva la pietra a Tennano: qualche chilometro in salita dalla Sova. Se vi capita di raccogliere il ginepro (anche se non si potrebbe) passate di lì. Ci sono ancora i segni del legno che, conficcato nella pietra ed imbevuto d’acqua, risultava nelle lastre di pietra serena. Quei segni sono stati lasciati da mio zio Fernando, e dal “suo” zio (“mio” per translitterazione) Giovanbattista, prima di trascinare il tutto in bicicletta: col favore (e ci mancherebbe altro!) della discesa e di qualche kilometro di pianura. Il Chiappino, che ho conosciuto io, lavorava la pietra col beneficio d’un tetto prefabbricato, un carroponte ed una maledetta sega ad acqua. La pietra, per altro, veniva cesellata a mano: seduti per terra, a gambe incrociate, con un mazzuolo. Prima della pietra, il mazzuolo scolpisce il corpo: indurendolo e squilibrandolo. Sarò pur stato piccolo ma, mio zio Bista, mi sosteneva con una mano, la destra: come la nonna di Troisi, dopata dai ricostituenti pensati per il nonno, nel celebre sketch. Per il resto era magro e longilineo, con gl’occhi incavati ed il naso prominente. Se n’andò, lo zio Bista, che non ero ancora adolescente: mentre tutti s’impegnavano al capezzale della moglie malata, che ne sopravvisse. Bista ci lasciò com’aveva vissuto: senza emettere un fiato.

Chiappino, invece, non l’avresti chetato neppure con un bavaglio. Aveva una piacevolissima “evve” moscia: la stessa che avevo io da bambino. L’erre moscia di Chiappino sibilava alle alte armoniche; quelle che raggiungeva scaldandosi: cosa che, ai “chiappini”, capita spesso. Per il resto era magno, longilineo e disponeva tanto d’occhi cesellati quanto di prominenza nasale. Era permaloso, Chiappino, ma nessuno, da lui, si sarebbe aspettato la vendetta. La pena erogata da Chiappino all’empio si risolveva nella damnatio memoriae: anche se non aveva la più pallida idea di che cosa fosse. Era ironico, Chiappino, disposto alla presa in giro ed all’erosione verbale: così come s’addice ad un buon toscano. Ed era, soprattutto, un uomo laborioso che, con il sudore, aveva saputo riscattare la gleba dei suoi natali. Portava i capelli corti, canuti e folti, che non l’hanno mai lasciato. Quando se n’è andato, aveva già seppellito la moglie, sposato la figlia ma lasciava Chiappino ancora imberbe.

Io sono cresciuto con Chiappino.

A dirla tutta, Chiappino era mio cugino Massimiliano ma, vi parrà strano, la cosa è del tutto irrilevante. Io e Chiappino siamo passati per le stesse braccia, animato gli stessi posti e, soprattutto, l’abbiamo fatto allo stesso tempo. Com’era Chiappino da piccolo?

Se disponete di qualche coordinata culturale (altrimenti attrezzatevi, se pretendete di capire!) Chiappino era Tommy: il soggetto di Never Let Me Go di Kazuo Ishiguro. Quello, per intenderci, che veniva selezionato per ultimo, nella conta delle squadre che precede il gioco, e che, per questo, se la prendeva a morte: saltando e disperandosi. Io, che c’ero, non solo lo so ma posso anche dimostrarlo. Da qualche parte, nel mio garage, c’è un super 8 senza traccia sonora. Ci sono due bambini col grembiule, entro un indefinito tappeto. Uno sta giocando assorto mentre l’altro, in piedi, gli si fa sotto con aria seducente. Quello seduto a giocare, non presta la minima attenzione a chi gli sta parlando ed il seduttore, dopo un po’, prende a scalpitare. Niente da fare: quello continua a giocare e l’altro comincia a disperarsi. Io, se non l’avete capito, ero quello seduto e Chiappino era in piedi. Una scena speculare insisteva nel salotto di nostra zia Fernanda, inquadrata a cornice. Due bambini, uno seduto e l’altro in piedi che piangeva: “zia, siamo io e Massimiliano?”. “Sì, Andrea”, mi disse la zia, ed a me piacque credere che io e Massimiliano fossimo, per sempre, nel salotto della nostra zia Fernanda. Col tempo, grazie alla stessa, ho scoperto che si trattava d’una stampa deLa Domenica del Corriere. S’intitolava Le Prime Boccate di Fumo e, pur non testimoniando di me e Chiappino, è la cornice che, se qualcuno si fosse mai offerto, avrei voluto al commiato di mia zia: ma non importa.

Ho anche dichiarato guerra a Chiappino, condizionato da I Ragazzi della Via Pal, immemore che CasalBeni contava più ragazzi del Piazzone e che, fra i Mazzi, Salis, D’Avenia, Ferri, Brogi, Maggi, Moneti ed altri, a CasalBeni viveva “Chiucchie”. Non so cos’abbia provato Davide al cospetto di Golia ma, alla vista di Leonardo, ho provato una gran voglia di pace anche se avevo in mano una fionda. Non sono un re anche per questo ma, in fondo, chi se ne frega.

Io, figlio di due “fenomeni parastatali”, sono cresciuto nell’artigianato. Mi sono lanciato, dalle scale, su montagne di maglioni lavorati a mano. Ho passato i pomeriggi tra la colla e la segatura d’una falegnameria e, naturalmente, fra la polvere della pietra. Ciò nonostante non ho mai appreso un mestiere! Ho visto Chiappino prendere la sua strada mentre a me era permesso di giocare. Sono cresciuto alla Sova, dov’insite la sede della Casentino, Pietre e Marmi, ed ho visto Chiappino diventare Linus: al netto della coperta ed al grosso della polvere. L’ho visto farsi uomo ed accompagnarsi agl’adulti: chè è il lavoro che cesella gli uomini. Abbiamo scoperto l’amore pagano in sincrono, alla Sova: lui nell’alcova dell’opificio ed io nella roulotte che, mai e poi mai, mio padre avrebbe pensato come luogo di perdizione … tanto quanto Fernando intendeva l’opificio come dependance: peccati di gioventù!

Ho visto Chiappino star male ed abbuiarsi: non già per la febbre alta del bambino. Gl’ho visto perdere la madre, giovanissimo, e poi il padre, ancora giovane. L’ho visto curare il cancro, ad un prezzo salatissimo, ed ho visto l’ombra posarsi sugl’occhi. L’ho visto tradito e l’ho visto escluso, per quel cascame ch’accompagna il dolore. Il dolore non ha valore e, visto che nessuno ne chiede, non è mai oggetto di scambio: per ciò stesso è solo tuo. Non l’ho mai visto arreso anche quando, fin troppo presto, ha capito d’essere al mondo come “donatore”. Il virgolettato appartiene al libro di Ishiguro, che ispira questo breve commiato e merita, se non la lettura, almeno due parole. Never Let Me Go racconta un mondo distopico in cui, l’umanità, ha sconfitto la malattia col trapianto. I cloni, preposti ad essere trapiantati, esistono in funzione della donazione degl’organi ma, ed è in questo la grandezza del libro, sono legittimati a condurre anche una vita caduca quanto inutile.

Inutile esibire la propria arte, inutile dimostrarsi capaci d’amore: nessun clone è destinato alla salvezza; semmai alla breve memoria di vite altrettanto brevi; ma quale vita eterna! Chiappino, come chiunque altro, ricordava la propria vita e desiderava l’esser ricordato: chè è la memoria, il lato in ombra dei permalosi. Nella sua vita c’era il ricordo di mia madre, che l’aveva aiutato nel passaggio tetro della malattia: come se, sua zia (che ho conosciuto piuttosto bene) avrebbe potuto fare altrimenti! Ma l’aveva fatto a lui e questo, Chiappino, aveva deciso di ricordarmi: “la zia (che poi era mia madre) mi ha aiutato quando avevo bisogno”. Sapeva di tributare un merito e far felice chi ne depositava la memoria e questo, Chiappino, l’ha sempre donato a tutti. Di me ricordava come l’avessi sempre difeso e mai, solo per questo, m’ha fatto sentire meno il suo baluardo. Chiappino sapeva amare e, se non mi credete, chiedetelo pure a chi l’ha amato. È vero: questo non l’ha salvato da una vita breve, costellata da continue “donazioni” che, prima della vita, gl’hanno offeso anche gli arti. “Piove sul giusto come sull’empio”, sussurra la Bibbia, senza precisare quant’intenso e lungo possa essere il diluvio. Il tempo di Chiappino non è stato né gentile né clemente: trovo persino futile se, bagnato come un pulcino, sia stato forte come la pietra o petulante e tremebondo, come un qualunque Troisi, al cospetto della malattia.

Cosa s’impone all’umano, che non lo lascia mai per vinto, non è il carattere, né il vigore, né altro: cosa sostiene l’uomo, nel corso della vita, è la speranza. È quel fondo (Elpis) rimasto nel vaso di Pandora che ci trascina lungo i sentieri terreni e guai all’uomo che se ne lascia privare! Non importa se questa si vesta della luce verde, al di là del molo, o s’attesti nell’eternità, al di là dal venire: nessuno, comunque, se l’è mai meritata. Io, per altro, non posso garantire né la prima né, tantomeno, la seconda a nessuno: non già perché non voglia ma perché non posso. Sapevo per tempo come sarebbe morto Chiappino (come me, del resto): avrei, solo, voluto vederlo invecchiare! Anche meno: per come s’erano messi i Numi, mi sarebbe bastato poterlo salutare. Non ho potuto neanche questo!

Posso, però, fargli salva la vita dall’oblio perché Chiappino appartiene ai miei ricordi più cari: come parte del mio tesoro personale. Quando dischiudo l’uscio di casa, al civico 9 di Piazza Garibaldi, ritrovo il caminetto cesellato da Chiappino. Ma questo, anche se importante, è solo il vinile della mia memoria: perché non si vive di madelaine! Si vive, piuttosto, impastati della polvere depositata dagl’altri: con maggiore o minore consapevolezza. Per questo, benché la mia vita scorra altrove, insisto nel tornare qui: dove riposa la polvere della mia infanzia. Se disponessi della speranza che abitava mio padre, piuttosto di quella che vivificava Chiappino, sono sicuro che li sentirei bussare alla mia porta per lasciarmi, ancora, un gesto da conservare: ma questo, io, non posso permettermelo.

Continuo a ripetermi che, comunque, sono stato fortunato a passare del tempo con lui” e, per questo, sono grato alla vita quanto sono grato a te …

Massimiliano!

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