Ottantatré gradi di latitudine nord, mare di Kara in Siberia settentrionale, giusto sull’estuario dell’Enisej. Quando la temperatura si scalda, nel golfo dell’Enisej si respirano meno di ventidue gradi sotto lo zero: in un’epoca che si sta avviando verso il riscaldamento globale. Pochi chilometri a nord di una remota stazione metereologica disabitata, sulle rive dell’Enisej, un gruppo di paleontologi russi s’è guadagnato la copertina di Science. Quarantacinquemila anni fa, in piena era glaciale, una scena di caccia fossilizzata ha rivelato l’incontrovertibile presenza umana: quella dell’Homo Sapiens.
(IMPRESSIONI DI SETTEMBRE della PFM in sottofondo)
Una specie capace di muoversi per il pianeta, popolandone ogni dove, è biologicamente intesa come cosmopolita. Se a questo s’aggiunge che la specie in questione si mette a competere con le specie autoctone (Homo Idaltu, Homo di Neanderthal, Homo di Cromagnon, Homo di Flores, Homo di Denisova, Homo di Luzo, Homo Ergaster, etc.), finendo per sostituirle, abbiamo di fronte una specie cosmopolita, infestante: l’Homo Sapiens, appunto. Dell’Homo Sapiens si può predicare tutto il bene ed il male possibile ma una cosa è certa: è l’unico sopravvissuto del suo genere.
Per questo, ed a ragione, Charles Darwin poteva predicare l’esistenza di un unico genere umano, “Homo”, costituito da un’unica specie, “Sapiens”, sopravvissuta fino ad oggi. Seguendo il rigore tassonomico, detto del genere e della specie, non resta che trattare di razza: come per qualunque altro animale, né più speciale, né meno, dell’uomo. La spinosa questione delle “razze” umane è trattata da Darwin nel famoso capitolo VII della parte prima dell’Origine dell’Uomo. Vero che Darwin non è il verbo di Dio, ciò non ostante è utile tenerne conto.
In massima sintesi, ma senza timore di smentita, il pensiero di Darwin in ordine alle “razze” umane si può così sintetizzare. Homo Sapiens abita i più svariati ecosistemi dove insistono altre specie di cui si può agevolmente predicare la razza, o biodiversità, intesa come variabilità genetica: si può fare altrettanto con l’uomo? Ecco: Darwin sostiene che, con riguardo alla specie umana, l’introduzione della categoria raziale sarebbe uno specchio deformante. In primo luogo, Darwin rileva l’inconsistenza zoologica del termine e ne offre, egli stesso, un valido esempio: quando Darwin si riferisce alle “razze” umane intende i Francesi, i Tedeschi quanto i Romani, i Cartaginesi, Sumeri e Babilonesi. In effetti è il campo semantico del termine che scivola, dal XVIII al XIX secolo, dalla puericultura alla zootecnia: dalle tecniche con le quali insegniamo lingua e cultura ai bambini, all’allevamento intensivo dei polli in batteria. Questa nuova distanza semantica fa sì che tutto il discorso di Darwin, atto a scoraggiare la categoria raziale nell’uomo come non descrittiva, sposti la questione dalla biologia all’antropologia: dalla natura alla cultura.
Se il discorso sulla razza, oggi, fosse circoscritto a biologi e genetisti non si porrebbe neanche. Così, ovviamente, s’esprime anche Darwin ma lasciate che io mi muova autonomamente. Homo Sapiens è un cosmopolita infestante come la felce, gli scarafaggi ed i ratti. Per simpatia con il genio di Art Spiegelman, prendiamo ad esempio i ratti: quelli di Maus, per intenderci. Orbene: i ratti non sono distinti in razze, nessuno ne ha mai sentito l’esigenza e neanche potrebbero. La storia genetica d’un cosmopolita passa sempre per l’ibridazione per il fatto ovvio che la varianza e velocità degli spostamenti non consente la fissazione, in un gruppo distinto d’individui, di caratteri genetici stabili ed univoci. Vero è, comunque, che se un ratto si sente grigio chiaro e pretende, da questa sfumatura, di far conseguire tutto il bene pensabile, non ci sono santi che tengano.
Questo vizio di misurare la distanza dal proprio simile è tutto umano. Di più: è il lato oscuro del discernimento comunemente noto come discriminazione. Un ratto, per evidenti limiti d’astrazione, non è semplicemente in grado di sottilizzare sulle proprie sfumature cromatiche e non è, certamente, un prodotto culturale. Il comportamento infestante del ratto è interspecifico: compete, sì, ma con altre specie! Questo passo evolutivo, Homo Sapiens non l’ha ancora compiuto se è vero, com’è vero, che Darwin stesso prende a cuore la questione dell’estinzione di quelle che considera “razze” (Sumeri, Babilonesi, etc.): “L’estinguersi di una razza viene principalmente dalla lotta di una tribù coll’altra, e di una razza con un’altra”.
Il territorio su cui volteggia l’estinzione delle “razze”, così come l’intende Darwin, è saldamente ancorato all’attitudine infestante intraspecifica di Homo Sapiens ma appartiene più alla storia, all’archeologia, all’antropologia e filosofia: non alla semplice predisposizione biologica. Homo sapiens, da più di sessantacinquemila anni, non evolve: progredisce! In poche parole, l’essere umano si è emancipato dalla selezione naturale: ciò a dire che non è più un prodotto naturale ma culturale. Le conclusioni a cui giunge Darwin nell’Origine dell’Uomo sono tutt’oggi valide ed insindacate: tanto che, se è pensabile un progetto intelligente per l’uomo, è quello che il medesimo ha stabilito per sé. Detto questo, resta da vedere quanto Homo Sapiens sia intelligente ma la questione, converrete con me, non è attinente al sesso, alla razza, alla lingua: più spesso, l’intelligenza, si misura nell’opinione.
La scienza, inutile prendersi in giro, stenta a definire l’uomo “com’è” (cosmopolita infestante, dicevamo); figuriamoci ad azzardare una risposta alla domanda ontologica: “cos’è” l’uomo? Nessun sano di mente lo sa con certezza e forse non ne vale neppure la pena. Più sensato chiedersi “quand’è” l’uomo ma non credo che sia decisivo. L’uomo è già umano quando scende dai rami? Quando deambula su due piedi? Quando supera il limite di Sultan (vale a dire quando si costruisce i suoi strumenti)? Quando impara a controllare sé stesso, il fuoco, la metallurgia, la navigazione, il carbone, il petrolio, l’atomo od il telefonino? Quando impara a raccontare la sua storia ed essere interessante? Sì, forse.
Più interessante, attuale e decisivo è tornare a cercare l’uomo col lanternino: “dov’è” l’uomo? Chiedeva Diogene. Ecco, chiedersi dove vive un cosmopolita, seppur affetto dall’indole infestante, è piuttosto semplice: nel mondo, in tutto il mondo. Oggi si pretende che viva solo l’Occidente, Wall Street o qualche ameno paesaggio della Toscana. Si pretende che insista a lavoro, a scuola, a casa; da una parte piuttosto che un’altra: sciocchezze! Chiedetelo pure dov’è, chi state cercando, e chiedetelo sempre: “dov’è Andrea?”, tanto per fare un esempio. Chi crede di saperlo, lo suppone sempre in viaggio, foss’anche immaginario: non a caso si risponde sempre che “è andato” (di qua, di là, a fare questo o quest’altro). Questo genere di risposte inquina l’anima: la vostra quanto quella d’Andrea, o chi per lui. Illude l’umanità d’essere di passaggio, fugace e caduca: non è così.
Un uomo che ha capito può fare una sola cosa nella vita: trovare una situazione che sia sua e viverla. Ma voi, che l’avete a cuore, chiedetelo sempre “dov’è” e sperate: sperate che abbia capito.
(LE TASCHE PIENE DI SASSI di JOVANOTTI in coda o, meglio ancora, MAD WORLD dei TEARS FOR FEARS nella versione video di Gary Jules e Michael Andrews)