GINO E IL BOSCO INCANTATO
Da quando aveva dovuto smettere di lavorare Gino non era più lo stesso. Da anni ormai era in pensione, ma lui che da oltre sessanta anni svolgeva la mansione di muratore, di fare quel mestiere non ne voleva sapere di smettere. Anche la moglie, la signora Assunta e i due figli avevano dovuto assecondare Gino in questa sua scelta, rendendosi conto del fatto che senza il suo lavoro l’uomo sarebbe finito di lì a poco. Intendiamoci Gino ora faceva piccoli lavoretti, niente a che vedere con le meravigliose case che aveva costruito durante la sua lunga attività, ma a lui questo bastava per non sentirsi schiacciare dalla vecchiaia. Un mattino l’uomo si alzò con l’idea di costruire un muretto di cinta per tenere protetto un fazzoletto di bosco che aveva ereditato dai suoi genitori. Questo angolino di paradiso non valeva nulla, non era edificabile e oltre a qualche fungo o qualche mora, non rendeva niente, ma per Gino aveva un valore inestimabile. Da piccolo suo padre lo portava spesso in quel boschetto a raccogliere castagne e ancora adesso, ormai vecchio, amava sedersi nel solito grande masso dove si sedeva col padre, e proprio da quel masso aveva guardato passare tutte le sue età. Gino amava ricordare le favole che il padre gli raccontava e spesso si emozionava perché questo era stato il suo unico, divertente e meraviglioso gioco di un tempo. Il padre di Gino era analfabeta, ma nonostante ciò era dotato di una grande fantasia, che lo rendeva un uomo affascinante, che a forza di inventare e raccontare storie, aveva sciolto la sua parlantina diventando così un eccellente narratore. C’era una novella in particolare che Gino ricordava volentieri e quando lo faceva, rivedeva il volto rugoso del babbo, che con aria da sogno gli diceva cosi; – Vieni Ginetto, siediti qui vicino al babbo, che tu non sai cosa mi è successo stamani! – Allora lui si sedeva nel masso lasciando ciondolare le secche gambette e con occhi colmi di curiosità, legando le mani l’una con ‘altra, aspettava e bramava la storia del padre; – Ero chinato a raccogliere rami secchi per accendere il fuoco Ginetto, quando alla mia destra, uno svelto folletto vestito di foglie correva verso il ruscello. Ho stretto gli occhi pensando di essere suggestionato dal luogo, ma quando li ho riaperti, ciò che questi vedevano era qualcosa di magico. Ai bordi del piccolo rigagnolo d’acqua che scorreva fiero tagliando a metà il lembo di bosco di nostra proprietà, c’era un’intera famiglia di folletti, piccoli omini vestiti di foglie, con braccia e gambe più corte del busto. Il loro corpo era sproporzionato e rispetto agli arti pareva più lungo. Il capo era rotondo e coperto da un cappellino appuntito, fatto anch’esso di foglie, e il loro volto era di una bellezza incredibile e i loro immensi occhi verdi luccicavano accesi e pieni di vita. Ricordo Ginetto che il mio respiro era corto per l’emozione e la meraviglia. Sono caduto in ginocchio e ho lasciato andare i rametti che avevo raccolto e come paralizzato ho continuato a guardare le scene che i tre folletti svolgevano a pochi metri da me. Mamma folletto dal viso paffuto, lavava il visetto del figlio che a stento si reggeva in piedi da quanto era piccolo, il babbo utilizzava le mani che facevano da contenitore d’acqua per agevolare il compito della mamma. A un certo punto ho capito che mi avevano visto, era da tempo che loro sapevano della mia esistenza e dopo essersi accertati della mia non pericolosità, avevano deciso di uscire allo scoperto anche in mia presenza. Il piccolo folletto rideva, perché la sua mamma con lo sfregare il suo corpo per lavarlo, gli procurava solletico, mentre il padre di tanto in tanto si voltava verso di me per accertarsi del mio comportamento. Poco dopo sono usciti dal fresco rigagnolo d’acqua e mentre mamma folletto asciugava il suo piccolo con nuove foglie di castagno, il capofamiglia raccoglieva more e frutti di bosco, da uno spino che esisteva da sempre al di là del fossato. Non sentivo niente di niente, neppure il dolore alle ginocchia che erano cadute sui ricci di castagne. Ero come assorbito da un mondo che credevo possibile soltanto nei racconti serali della nonna Marina, vecchia e sdentata che ci radunava tutti alla sera, quando intorno al camino, sprigionava tutta la sua fantasia! Ad un tratto il babbo folletto veniva verso di me con una manciata di more. Me le ha poste allungando il suo braccio… è stata l’ultima cosa che ho visto Ginetto e poi sono svenuto incredulo. – Gino dette un brivido come ogni volta che ricordava questa storia in particolare, i suoi occhi erano stracolmi di lacrime nel ricordare il suo babbo e la facilità che aveva nel raccontare le storie. Assomigliava senz’altro alla nonna Marina, pensò! Poi Gino buttò gli occhi sul suo vecchio orologio sporco di calce rendendosi conto che era ormai tempo di rientrare e che di certo la sua Assunta gli avrebbe dato del rimbambito. Scese dall’enorme masso, aiutò la sua vecchia schiena a ritrovare un po’ della sua dignità, costringendola a rimanere diritta e s’incamminò. Gino sorrideva durante la discesa dal bosco poi d’un tratto il sorriso lasciò il posto ad una bocca spalancata, la bocca che di solito si assume nel vedere qualcosa di straordinario! Due bambini folletto giravano forte tenendosi per mano, procurando cosi un leggero vortice di foglie colorate e perfette. L’uomo non raccontò mai a nessuno ciò che aveva visto quel giorno nel bosco, neanche a sua moglie Assunta che gli dava del rimbambito per molto, ma molto di meno!