Nel Museo della Verna (sala IV) si conserva un Crocifisso ligneo policromo, databile agli inizi del secolo XVI, che s’inserisce nella tradizione fiorentina reinterpretando le esperienze artistiche di fine Quattrocento. L’opera adespota, recentissimamente ha trovato una proposta di attribuzione ad Andrea della Robbia da parte della storica dell’Arte Paola Refice che ne aveva curato la scheda nel Catalogo “Tesori in prestito. Il museo della Verna e le sue raccolte” edito nel 2010 a cura di Secondino Gatta. Recuperato nei depositi del santuario dall’allora Guardiano Padre Fiorenzo Locatelli e restaurato per conto della Soprintendenza di Arezzo, il Crocifisso, ricoperto da uno spesso strato di smalto da esterni, applicato per fingere il bronzo, presenta quattro lettere tracciate sulla pianta del piede sinistro in corrispondenza del tallone che sono state interpretate come una firma per monogramma dello scultore Andrea della Robbia (Paola Refice “Argomenti per Andrea della Robbia intagliatore” in Storia dell’Arte on the road, Studi in onore di Alessandro Tolomei, Campisano Editore, 2022). La studiosa sottolineando come la linea storiografica che fa di Andrea uno “scultore di tutto” e non solo un continuatore della prassi della terracotta invetriata avviata dallo zio Luca, risalga ad un’osservazione dovuta ad un contemporaneo di Andrea, Benedetto Dei, ripresa e divulgata un secolo più tardi da Vasari nelle “Vite”. Il confronto con la figura del Cristo crocifisso della pala centinata della Cappella delle Stimmate, risalente al 1481, risulta in proposito molto significativo. Il livello esecutivo dell’opera, l’intaglio e la finitura pittorica raffinatissima, hanno suscitato l’interesse di molti studiosi d’arte che ne hanno evidenziano la preziosità e la postura espressionistica della testa, i riccioli e i baffi minuziosamente resi che evocano l’ambito di una cultura fiorentina alla quale rimanda anche l’uso dell’essenza del legno di tiglio. Ciò che stupisce di questa raffinata opera di grandissimo valore artistico, è sicuramente lo slancio emotivo, il languore espressivo pur raffrenato nella sua compostezza compositiva nonché l’eccezionale livello tecnico e formale. Lo scultore che realizzò l’opera si servì del legno di tiglio, materiale sul quale lo stesso Vasari, spende non poche parole per elogiarlo: “Perché egli ha i pori uguali per ogni lato, ed ubbidisce più agevolmente alla lima e allo scalpello”. In questo il Vasari si pone in linea con quanto sostenuto da Leon Battista Alberti, il quale nel De re aedificatoria scriveva: “Gli antichi non disprezzarono né per le statue né per le pitture il pioppo, bianco e nero, il salice, il carpine, il sorbo, il sambuco, ed il fico; questi legni […] sono meravigliosamente dolci e facili sotto lo strumento dello scultore per esprimere tutti i modi delle forme. Ma è certo che nessuno di essi può paragonarsi per trattabilità al tiglio”.