Giovanni Gualberto, nacque, probabilmente tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo, in Toscana, non lontano da Firenze (secondo le agiografie più tarde nel castello di Petroio, in Val di Pesa). La notizia di una sua appartenenza alla stirpe dei Visdomini è fonte di discussione tra gli studiosi così come tutta la sua vicenda biografica. La tradizione vuole che Gualberto, si facesse monaco all’insaputa del padre nel monastero benedettino di S. Miniato al Monte, alle porte di Firenze. La sua scelta sarebbe stata determinata, secondo una delle prime agiografie (la Vita scritta da Attone di Vallombrosa), dall’incontro inaspettato con l’assassino di suo fratello; abbandonando i propositi di vendetta, Gualberto perdonò il colpevole ed entrò nella chiesa di S. Miniato, dove vide il crocefisso inclinare la testa verso di lui in segno di assenso per la scelta misericordiosa. Colpito dal miracolo, il giovane chiese all’abate del luogo di entrare a far parte di quella comunità e resistette ad ogni tentativo del padre di ricondurlo nel mondo. L’episodio, che appare costruito secondo i topoi dell’agiografia, segna l’inizio di una straordinaria esperienza monastica, che si situa in un periodo cruciale della storia della Chiesa, percorso da forti tensioni e istanze di rinnovamento, che troveranno in Gregorio VII il loro più alto interprete. Monaco a San Miniato, dopo avere denunciato il proprio abate per simonia (commercio peccaminoso di beni sacri) peregrinò per vari monasteri e fu anche a Camaldoli dove rifiutò la promozione “ad sacrum ordinem” offertagli dal priore; lasciato l’eremo fondò un nuovo istituto in località Acquabella poi denominata Vallombrosa. La scelta del luogo sarebbe avvenuta a seguito di un evento miracoloso: si tramanda che, sorpreso da una tempesta, il santo trovasse rifugio sotto un faggio spoglio che prodigiosamente si ricoprì di foglie per proteggerlo (ancor oggi a Vallombrosa si considera un vecchio e maestoso faggio di circa 150 anni, quello del miracolo). San Giovanni Gualberto muore il 12 luglio 1073 a Passignano nell’Abbazia di San Michele Arcangelo; sarà canonizzato il 1° ottobre 1193 da Papa Celestino III e proclamato Patrono dei Forestali d’Italia il 12 gennaio 1951 da Papa Pio XII. L’opera della cura dei boschi di San Giovanni Gualberto fu portata avanti dai monaci Vallombrosani come ricorda Di Bérenger nel suo trattato di selvicoltura del 1887: “Ond’è manifesta la prova dell’abbandono generale nel medio evo della coltivazione dei boschi e della poca cura che si aveva di conservarli. D’altra parte non è men vero che specialmente l’ordine monastico dei Benedettini Vallombrosani contribuì a promuovere la coltura dei boschi, allevando alcune abetaie e cerreti nel circondario di Reggello, assoggettandoli poi ad un governo perfettamente razionale”. Nella seconda metà del Quattrocento videro la luce i Miracula s. Iohannis Gualberti, ampio racconto di miracoli post mortem, spesso avvenuti in virtù delle reliquie del santo, il cui autore è Girolamo da Raggiolo, amico di Lorenzo il Magnifico, cui è dedicata l’opera. L’iconografia del santo fondatore della Congregazione vallombrosana, lo presenta in abiti monastici (di colore grigio o marrone o, nelle raffigurazioni meno antiche, nero, in conformità alla tradizione benedettina), appoggiato al pastorale abbaziale a forma di tau con protomi leonine detto la “gruccia”, insegna caratteristica degli abati e dello stemma vallombrosano e con un piccolo crocifisso in mano che ricorda il miracolo avvenuto nella chiesa di S. Miniato. Nell’Oratorio della Madonna contro il Morbo a Poppi sopra l’altare di destra si conserva una tela raffigurante l’Incoronazione della Vergine e i tre santi fondatori degli Ordini Francescano, Camaldolese e Vallombrosano. Dietro san Francesco sulla sinistra, si trova San Giovanni Gualberto, con lo sguardo rivolto verso la Regina del Cielo, appoggiato al pastorale abbaziale a forma di tau e con un piccolo crocifisso nella mano destra. La tela è firmata e datata: Pietro Dandini faceva a.1707. Il pittore, uno degli artisti più attivi in epoca barocca, nacque a Firenze nel 1646 e morì nel 1712. La tela, commissionata dalla famiglia Fabbri e restaurata nel 2000, è condotta con vivacità cromatica ed effetti scenografici che sottolineano l’illusionistico sfondato atmosferico saturo di nubi, enfatizzato da pennellate marezzate. Il dipinto presenta una composizione in diagonale con una struttura teatrale enfatizzata dalla gestualità dei personaggi che rivelano un’espressività accentuata e una tipologia dei volti caratterizzati da modelli un po’ stereotipati. Dandini, che nel dipinto di Poppi manifesta tutto il suo estro, fu sapiente interprete dello sviluppo stilistico del tardo barocco toscano e quanto mai attento alle influenze romane di Pietro da Cortona. Attivo tra il 1637 e il 1647 a Palazzo Pitti e poi con Luca Giordano, nei primi anni Ottanta, a Palazzo Medici Riccardi, mostra uno stile pittorico influenzato dai numerosi viaggi che gli permisero di conoscere l’arte nelle città di Bologna, Venezia, Modena e Roma, tutte esperienze che lo indussero ad ammorbidire il suo stile influenzato dalla delicatezza della pittura veneta e strutturato dalle meditate composizioni di Paolo Veronese. Sostenuto dalla famiglia Medici ed in particolare da Ferdinando, divenendo verso la metà degli anni settanta del Seicento, uno dei più stimati protagonisti della pittura fiorentina, ottenne numerose commissioni di affresco e cavalletto destinate sia a quadrerie private che all’arredo di chiese in città e nel contado.