Agnese (Roma, 290-293 – 21 gennaio 305) secondo la tradizione latina, fu una nobile appartenente alla gens Claudia che subì il martirio durante la persecuzione dei cristiani sotto Diocleziano, all’età di 12 anni. Si narra che il figlio del prefetto di Roma si fosse invaghito di lei senza esserne corrisposto, avendo la giovane fatto voto di castità a Gesù. Denunciata come cristiana, le fu imposta la clausura fra le vestali, con le quali avrebbe dovuto rendere culto alla dea che proteggeva la città di Roma. Al rifiuto di Agnese, il prefetto l’avrebbe fatta rinchiudere in un postribolo dove nessuno osò toccarla e il corpo nudo della fanciulla si coprì con i lunghi capelli che il Signore le fece crescere miracolosamente. La tradizione racconta che Agnese, accusata di magia, fu condannata al rogo, ma le fiamme si divisero sotto il suo corpo senza neppur lambirlo. La santa infine morì trafitta da un colpo di spada alla gola così come si uccidevano gli agnelli: proprio per questo l’animale è diventato il suo simbolo iconografico. Venne sepolta nelle catacombe lungo la via Nomentana, a lei intitolate. Nel IX secolo il corpo della santa fu privato della testa, collocata nel Sancta Sanctorum del palazzo lateranense e da lì nel 1903, per volere di Pio X, posta in un reliquiario nella chiesa di Sant’Agnese in Agone di piazza Navona. Considerata tra le più illustri martiri della Chiesa, Agnese ha meritato di essere iscritta nel canone romano della Messa. Presso il refettorio dell’Eremo di Camaldoli è conservata una grande tela (cm.175,5 x 121,5) nella quale la santa è raffigurata insieme a Sant’Orsola.
La sua figura stante occupa il lato sinistro e sorregge con la mano destra un agnellino, suo attributo iconografico e con l’altra la palma del martirio. La figura di Sant’Agnese risalta potente dal fondo scuro per il colore aranciato del mantello e per il verde scuro cangiante della veste: l’abbinamento di questi colori rimanda suggestivamente a quelli originari del panno casentino. La tela attribuita a Venanzio l’Eremita rappresenta un importante trait d’union con i dipinti toscani e quelli conservati a Napoli e Frascati, opere del monaco. Documentato dal 1618 al 1655, Venanzio risulta figura alquanto singolare e misteriosa; le sue opere furono inizialmente attribuite da Roberto Longhi ad Antiveduto Gramatica; in effetti le similitudini tra i due artisti sono manifeste, ma altrettanto evidenti sono le discordanze. Nulla è dato di sapere sul suo nome di battesimo: qualcuno ipotizza possa essere identificato con un architetto il cui nome era Francesco Antonio Biffoli. Dai documenti sappiamo che prese i voti nel 1618 e che soggiornò in vari eremi e monasteri camaldolesi sia in Italia che in Polonia. Nessuna notizia documentaria sulla sua formazione artistica: tuttavia il suo stile fortemente naturalistico che rimanda a modi caravaggeschi, porta a supporre una sua formazione romana. La tavolozza dai colori vividi, i tratti morbidi e le masse anatomiche dei volti, gli scorci a volte mirabolanti, sono le caratteristiche specifiche dell’arte di questo monaco-pittore, personalità affascinante e suggestiva, probabilmente originario di Subiaco che soggiornò a Camaldoli negli anni quaranta del secolo XVII.