Adempiuto il fine biologico per cui si trova lì, Maude Lebowski invita il concupito ad esprimersi: per bon ton più che interesse. “Parlami di te”, gli fa lei, e così, a Jeffrey Lebowski, è dato l’esprimersi: “conosci i Seattle Seven?”. “Mmmm”, annuisce lei col minimo interesse consentito. “Beh, io ero uno di quei ragazzi. Ho partecipato all’estensione del primo manifesto programmatico: il primo, non il secondo!”.
Difficile da credere ma the Dude, Jeffrey Lebowski, il fricchettone dei Coen, esiste sul serio. Al secolo, il grande Lebowski, si chiama Jeff Dowd e sì: era uno dei Seattle Seven, ha collaborato coi Metallica (definiti “un branco di stronzi”), ha dedicato la vita al bowling, ai white russians, agli spinelli, ed è ancora un convinto pacifista fin dai tempi del Vietnam. Fra l’altro, Jeff Dowd ed i fratelli Joel ed Ethan Coen, si conoscono benissimo dai tempi di Blood Simple: il loro primo lungometraggio, di cui Dowd ha curato la produzione.
Il Grande Lebowski, inteso come film, è un balsamo per lo spirito: “è bello sapere che lui è in giro; il drugo, che la prende come viene”. In giro, nel film, c’è un po’ di tutto e su tutto viene versata, copiosa, la soda caustica: soprattutto sull’altro Jeffrey Lebowski. L’omonimo del drugo, che con lui anima il film, è un vecchio paralitico vanaglorioso, puttaniere e manipolatore: il cui unico sforzo (streben) è stato quello di sposare le fortune della prima moglie. In questo gioco di specchi, fra il drugo ed il magnate, si trascina la commedia umana deIl Grande Lebowski che, poi, è anche la nostra: un po’ magnati ed un po’ hippies, a giorni alterni, ma sempre insensati. In particolare non c’è niente di più insensato, nel 1991 (l’anno in cui è ambientato il film e la liberazione del Kuwait), che intestarsi la redazione di un manifesto programmatico pacifista! Così inutile che, infatti, viene relegato ad un post coito: entro il quale, di solito, si tende ad assopirsi.
Io, personalmente, ho una cura maniacale della mia inutilità: per cui sono andato a cercarmi un manifesto programmatico pacifista, nel caso fossi richiesto d’esprimermi al di là del coito. Difficile da credersi, ma l’ho trovato. Superato il preambolo, il manifesto programmatico fra le mie mani comincia così: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Così, a prima vista, sembra il distillato dell’Occidente: c’è l’ontologia (Essere), c’è la liberté, l’égalité e la fraternité, e non mancano la Ragione e la Coscienza che circoscrivono il concetto di Individuo. Se l’Occidente fosse una religione, la Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani ne sarebbe il breviario: penso. Quando, nel 1948, ai 58 stati membri delle Nazioni Unite fu chiesto di votare la Dichiarazione, nessuno si sentì di votarle contro.
Certo, direte voi, la Dichiarazione è pur sempre un manifesto programmatico: una dichiarazione d’intenti, moralmente valida ad libitum (se piace). Buona, forse, per farti innamorare: se non ti chiami Maude Lebowski, chiaramente. Nel caso di Maude Lebowski, è fin troppo chiaro che non è stato così: avendo dato ampia dimostrazione di preferire la meccanica riproduttiva del drugo, al logòs spermatikòs che poteva contenere. Ma questa è la soda caustica dei Coen sul femminismo d’oltre oceano: la loro, ben inteso.
Eppure fa specie che oggi, senza doversi innamorare necessariamente di António Manuel de Oliveira Guterres, una dichiarazione allineata con la Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani, rilasciata dal Segretario dell’O.N.U., venga salutata da una selva di fischi! Quasi che ci dovessimo rivolgere al resto del mondo, per ricordare di cosa vantiamo per Occidente. Nel tempo, evidentemente, dev’essere finito per prevalere il magnate Lebowski: quello sostanzialmente stronzo.
Mica, per caso, siamo diventati, tutti, come i Metallica?
Forse sì o, forse, l’Occidente trascina con sé lo stesso caso di omonimia che anima Il Grande Lebowski. In soldoni si scrive Occidente ma, evidentemente, s’intendono due “personalità”, due scale valoriali, mooooolto diverse: una delle quali, naturalmente, non perde tempo in manifesti programmatici ma s’impegna a “fare”. Magari a “fare” esattamente come il Lebowski magnatizio del film: che si vende (V-E-N-D-E) sempre impegnato in qualcosa di “grande”, come il ponte sulla Baia di San Francisco (il Golden Gate) … o cose simili. Purtroppo, più spesso del necessario, l’Occidente magnatizio s’impegna a fare la guerra. Più precisamente, prima fa la guerra e poi ci scrive sopra un bel manifesto programmatico.
Non mi credete?
Correva l’anno 1914 e la Germania aveva già attraversato il Belgio. La propaganda anglo-francese batteva la lingua sulla violazione della neutralità belga per convincere, i paesi rimasti neutrali come l’Italia, a seguirli nel conflitto. Nei minimi termini, la propaganda delle democrazie occidentali insisteva su un distinguo: combattere il militarismo tedesco e non la Germania. L’Occidente democratico, anche nella propaganda, si è sempre stagliato in alto: come pochi. Pensate che, per convincere gli Italiani a convertirsi in una democrazia liberale, durante l’occupazione che seguì la II Guerra Mondiale veniva esaltata la riforma Churchill: quella che aveva istituito il Servizio Sanitario Nazionale in Gran Bretagna, in pieno conflitto. La cosa finì per essere inserita nel manifesto programmatico che chiamiamo Costituzione: da cui sortì, nel 1978, la Legge che istituiva, in piena crisi economica, il nostro Sistema Sanitario Nazionale. Quanto, oggi, siamo distanti dalla Democrazia Cristiana, lo lascio valutare a voi.
Fatto sta che, per contrastare l’assurda propaganda dell’Occidente democratico, i sudditi del Kaiser Wilhelm concepirono la propria versione dei fatti: oggi diremmo la propria “narrazione”. Il manifesto programmatico che ne seguì, pubblicato il 4 Ottobre del 1914, è una pietra miliare di quale delirio può concepire una mente “colta”, attanagliata dal nazionalismo. Il manifesto in questione è l’Aufruf an die Kulturwelt, l’Appello al Mondo Colto, meglio conosciuto come “Manifesto dei 93”; per ricordare, ai posteri, le firme in calce dei 93 esponenti della Kultur tedesca che si contrapposero alle “menzogne” della civiltà anglosassone: Pino Insegno non era ancora nato!
L’Appello al Mondo Colto, è bene esser subito chiari, è una vera croce; stampata nella mia memoria da una firma su tutte: quella di Max Planck. L’Appello, come per altro la Dichiarazione, meriterebbero la lettura: almeno nel vuoto di felicità fra due orgasmi. Se non avete tempo, cercherò di ridurlo ai minimi termini: a vostro favore. L’Appello si riprometteva di contrastare le fake news che seguirono l’invasione del Belgio: per questo si articola in sei capoversi in cui si ripete che “Non è vero”. Fra le cose interessanti che “non sono vere”, seguendo la “cultura” tedesca dell’epoca, due sono estremamente significative.
La prima è che il militarismo tedesco sarebbe consustanziale alla cultura tedesca: cosa, per altro, ben difficile da provare se non rivolgendosi ai ponti che Giulio Cesare stese sul Reno tanti, tanti, secoli fa. L’Appello veicola il concetto così: “Senza il militarismo germanico anche la nostra civiltà sarebbe da lungo bandita dalla terra. Per proteggerla sorse esso in un paese che per secoli e secoli fu, come nessun altro, funestato da incursioni nemiche. Popolo ed esercito sono una cosa sola in Germania”. Il concetto, in sé e per sé, è alquanto pernicioso: comprendendo la militarizzazione dell’infanzia (“balilla”) e le adunate oceaniche in camicia nera. Improponibile, oggi, ad un esercito chiamato a difendere la Repubblica, la Costituzione, piuttosto che un “popolo” (magari “padano”) in conflitto con altri “popoli” (forse “terroni”). In breve, a nessun sano di mente, oggigiorno, verrebbe mai in mente di celebrare qualcos’altro dalle Forze Armate: il 4 Novembre.
La seconda, che se si vuole è persino più indigesta della pretesa militaristica, è semplicemente il razzismo. Nelle parole dell’Appello, il razzismo suona così: “Non è vero che il nostro modo di condurre la guerra sia stato tale da offendere il diritto delle genti. Crudeltà e sfrenatezza sono sconosciute all’esercito germanico. È vero bensì che nella Prussia Orientale il sangue delle donne e dei bambini massacrati dalle orde russe inzuppa la terra e nello scacchiere occidentale i proiettili dum-dum stracciano il petto dei nostri soldati. Chi si affratella con russi e con serbi ed offre al mondo l’infame spettacolo di aizzar mongoli e negri contro la razza bianca, non ha il diritto di arrogarsi il titolo di difensore della civiltà europea”.
La Prima Guerra Mondiale è andata com’è andata e, forse, è stata più una guerra civile, un’Iliade, che ogni altra cosa. Il Kaiser Wilhelm, alla fine, fu considerato un criminale di guerra ed ai firmatari dell’Appello fu imposto di mangiarsi il documento: a coriandoli! Non per questo, la pretesa disfida fra Kultur e Zivilizazion si concluse così. Nella memoria dell’Occidente ci volle un’altra guerra “mondiale” per derimere la questione; anche perché, intanto, era stato pubblicato un altro, eloquente, manifesto programmatico: Mein Kampf. La Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani, il manifesto programmatico che preferisco, muove dal disgusto per il Mein Kampf e tutto quel che ne segue: sterminio, pulizia etnica, militarismo, prevaricazione, barbarie et cetera, cetera, cetera.
Un manifesto programmatico, la Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani, pensata dall’Occidente per preservare sé stesso: per mantenere la pace …
fra un godimento ed un altro.