Immaginate cosa sarebbe il Grande Fratello senza il favore delle telecamere: sarebbe il Congresso del PD.
Uno spettacolo, per altro, giunto all’ennesima edizione e, per questo, scaduto; da qui il venir meno dell’interesse (del) pubblico: a cui non è più data nemmeno la sospensione dell’incredulità. Un’operazione nostalgia andata a male, insomma, entro la quale si pretende uno spettatore intrappolato nell’infanzia: in cui Rocky non era fisicamente decaduto, a Sting ancora gli tirava e la principessa Leila non era un fantasma di luce, intrappolato nella celluloide. Dietro alle luci di scena, peraltro affievolite, una compagnia di teatro di discutibile valore: impegnata a sbarcare il lunario.
Niente di male, per carità, ma insufficiente ad evitare il fuoco di fila delle uova dal loggione: di quelli che hanno pagato caro il prezzo del biglietto e pretenderebbero un soprano meno reticente agli acuti, orchestrali più confidenti sugli strumenti ed una messa in scena che non riveli la cartapesta. È chiedere troppo?
Sì.
Uno spettacolo da un nichelino non è la prima della Scala, per cui la critica ne dovrebbe tener di conto. Ed in effetti, il deserto d’intellettuali che accompagna il congresso del PD, tiene conto d’un intrattenimento scadente persino per la massa televisiva: impossibile da criticare. E dire che il primo congresso del PD, vale a dire l’ultimo del PCI, sembrava il Concilio di Trento! Un noto cineasta “de Roma” si era impegnato con un film dedicato (Palombella Rossa) e, il canovaccio che ne era sortito, aveva richiesto anche un certo impegno letterario.
Il Partito Comunista Italiano (dal ‘46 al ‘90) si sarebbe chiamato Partito Democratico della Sinistra (dal ‘90 al ‘98), poi Democratici di Sinistra (dal ’98 al 2007) ed infine Partito Democratico (dal 2007 ad oggi). Avrebbe avuto, come simbolo liturgico, la quercia; ai cui piedi insisteva il vecchio simbolo del PCI disegnato da Guttuso, prima, e la rosa rossa del ’48 (inteso 1848!) Francese senza nessuna connotazione, poi. Il Partito Democratico, persino nella liturgia, ha sradicato la rosa in favore del rametto d’ulivo: di quercia nemmeno a parlarne!
Dicevamo del Concilio di Trento.
Il Concilio di Trento s’impose per reagire al luteranesimo ed impegnò la Chiesa Cattolica Apostolica per venti anni. Immaginatevi se, dopo vent’anni di conciliabolo, ne fosse sortito che Lutero, tutto sommato, aveva ragione; che il Papa, a volte, sparava cazzate e che, in fondo, siamo tutti buoni Cristiani: a rifarsi dai giudei! Per Dio: domani mi faccio Cattolico anche io! Magari, poi, non c’è da sorprendersi se i Cristiani Cattolici ed Apostolici, quelli del credo Tridentino, non provino un certo disagio! In soldoni, se da un Concilio ne esci con un “forse”, “magari”, “anche”, non stai praticando una vocazione universalistica (“cattolica” ovvero “maggioritaria” quanto “bolscevica”: come nel caso del PD) ma la demolizione di un credo (C-R-E-D-O)!
Nessuno è depositario della Verità, ahimè nemmeno i Chretien e così i Comunisti, ma è umano fare i conti con le proprie credenze senza, per questo, ritenere che siano le uniche disponibili: non sono le uniche ma sono le mie! Quanto, poi, si rivelino adeguate è tutto da vedere ma, castrati nelle credenze, si finisce agevolmente come un cammello in un suk: messo lì per essere comprato. Anche qui, niente di male: se la massima aspirazione dell’uomo, perché deve mangiare, è l’adesione al ruminante. Ecco, a me pare che nel mercato (suk, in lingua araba) del PD, al netto del solito caos e del rumore assordante, i cammelli si presentino già prezzati: senza nemmeno che ce li trascini un padrone, per il collo!
Vorrete convenire con me che lo spettacolo, se non fosse ludico, sarebbe raccapricciante. Se il dibattito sul “progressismo” fosse serio, dopo trentadue (T-R-E-T-A-D-U-E) anni di speculazione, una ventina di segretari ed una serie infinita di giravolte, qualcosa avrebbe sortito. Non pretendo un Credo Tridentino ma, sicuramente, neppure il solito epilogo da “notte degli oscar”: entro la quale viene palmato il miglior attore. Se tutto questo non fosse uno spettacolo frivolo, potete fidarvi che il pubblico non reagirebbe così: nessuno ha mai pensato di gettare uova, dal matroneo sull’altare!
Il punto è che l’esistenza stessa del PD mette in predicato il mio credo: perché io credo nel progresso.
In termini comprensibili ad un dirigente del PD e ragionando di “qualità”, vale a dire spostando l’indice dalla produzione (offerta) al mercato (domanda), io sono un loro cliente potenziale e come me ce ne sarebbe una giungla. Per spessore e consapevolezza, basterebbe intervistarmi senza neppure scomodare un dispendioso data mining. Io sono il prototipo ideale di qualunque customer satisfaction perché sono sinceramente disposto a fare la fila per il mio ì-phone: perché, per mia stessa ammissione, credo che l’ì-phone faccia di me una persona migliore. Non è rilevante, in “qualitese” standard, se effettivamente l’ì-phone mi renda migliore: io ci credo e tanto basta. L’azienda PD, allora, dovrebbe semplicemente adottare una strategia di condizionamento operante ed il gioco sarebbe fatto: lo scopo della “qualità” è, appunto, vendere lo stesso ì-phone, alla stessa persona, per sempre.
Se vi sembra che non sia così, vi sbagliate di grosso! Chi sa lavorare in “qualità”, guarda il sintagma fra voi e “la cosa” (NDR: il primo vagito di quello che, oggi, è il PD era definito “la cosa” da Achille Occhetto): “la cosa” cambia solo perché voi, più o meno consapevolmente, cambiate! In termini comprensibili, la progettazione de “la cosa” si cura di rinforzare la vostra credenza arbitraria (ad esempio che l’ì-phone mi renda migliore) affinché non cambi mai la relazione fra voi e “la cosa”. Ebbene, se c’è qualcosa d’imperdonabile nel mercato de “le cose” è la vendita dell’aliud pro alio (NDR: di una cosa per un’altra): esattamente quello che il PD “progressista” ha spacciato per anni. Non già, e non solo, perché il PD non ha niente di “progressista”, se non di fronte ad un sanfedista, ma perché è la progettazione che ispira “la cosa” (il prodotto) che è lontana anni luce dall’idea di progresso!
La critica comune che viene mossa al PD, dalla clientela, è tanto volgare quanto palese: “credevo di comprare le Nike e voi mi avete affibbiato le Mike: volevo El-Charro e mi trovo con El-Chatarro”. Insomma, il peccato del PD è quello del negozio esperto in camuffamenti e registrato in Cina: che compri “di sinistra” e ti ci trovi dentro Letizia Moratti. Qualche idiota lo chiama, pure, pragmatismo: scomodando altezze di pensiero (Kant) alle quali non è accreditato. Nel vuoto pneumatico, soprattutto quando è alacremente sponsorizzato, si vende anche di questo: e qualcuno se lo compra.
Ma il vero cruccio, che non ammanta certo il solo PD, è, proprio, lo scopo de “la cosa”. L’Avete letto bene? Ve lo ricordo: “lo scopo (…) è vendere lo stesso ì-phone, alla stessa persona, per sempre”. Ciò a dire impedire qualunque altro tipo di relazione con “la cosa” che non sia l’amore incondizionato: l’amore, sosteneva Orwell, per il Grande Fratello. Arrivare persino ad odiarsi per non aver amato abbastanza, per non essere stato fedele, per sempre, a “la cosa”.
Che mi venga un colpo se questo si chiama progresso! Questa è la relazione che l’uomo instaura col divino: qualunque cosa crediate che sia e ben inteso che il pensiero scientifico non procede, di certo, così.
Il progresso è l’esatto contrario d’una relazione stabile con le cose! In termini poveri quanto attuali, visto l’evidenza del cambiamento climatico, dovremmo cambiare opinione sull’automobile: “ti credevo un bene ma, visto che il tuo inquinamento è intollerabile, sei diventata un male”. Ragiona così la c.d. green economy? Ma manco per il caxxo! Le stesse case produttrici provvedono lo stesso “bene” alle stesse condizioni: tanto che le automobili elettriche promettono di soddisfare le stesse, identiche, aspettative (più spazio, più confort, più velocità, minori consumi e più pelo per tutti). In più si nota il prezzo maggiorato, gli incentivi all’acquisto e le barriere alla circolazione di qualcos’altro, coi quali lo Stato si mette al servizio del mercato, ed un bilancio ambientale, in termini di emissioni, superiore alle autovetture coi motori a scoppio. L’unica differenza è che, se l’auto elettrica inquina di più, lo fa nei luoghi dove non circola e dove il consumatore non getta lo sguardo! Nessuno, per altro, si prodiga ad informarlo. Solo così il volano dell’industria del ‘900 continua, imperterrito, ad essere rappresentato come un “bene” che merita sacrificio: per Dio, benissimo così!
Ma il progresso è altra cosa.
Lisbona, 1° Novembre 1755. Dapprima, dalle viscere della terra, un rombo di tuono: per sei minuti una violenta scossa di terremoto rase al suolo gran parte della città. Il mare si ritirò per tornare, rombando, con un’onda di quindici metri oltre il molo. I sopravvissuti, invece di correre in altura, si fidarono dei preti che l’invitavano a pregare nelle chiese: tanto solide d’aver resistito al sisma. Le vite risparmiate dalla scossa tellurica, furono mietute dallo tsunami. Capite bene che, il giorno d’Ognissanti, nella ricca capitale del cattolicissimo Portogallo, un terremoto di proporzioni bibliche non poteva che scatenare dei grandi discorsi sulla giustizia divina (teodicea). Tutti discorsi che noi, cresciuti all’ombra delle querce che i rivoluzionari francesi (quelli del 1789) avevano piantato nelle piazze cittadine, consideriamo tanto insipidi che cervellotici.
Tutti tranne uno.
Quest’unico, che ha segnato le coscienze (non di tutti ma della “maggioranza”) per gli anni a venire, è stato il Poema Sul Disastro di Lisbona di Voltaire. Non v’aspettate che lo riassuma per voi: leggetelo, piuttosto. Se proprio non trovate il tempo sappiate, in massima sintesi, che Voltaire sostiene ciò che per noi è scontato: il male non è l’assenza di bene né promana da Dio. Tuttavia esiste e tocca a noi, al nostro agire, provvedere altrimenti: va da sé che non c’è provvidenza ulteriore all’agire umano. Vi parrà strano ma, prima di Voltaire, non c’aveva pensato mai nessuno. Dopo ci sarà persino chi, come Rousseau, obietterà a Voltaire che, se i portoghesi avessero continuato a vivere in piccole abitazioni campestri, il terremoto non avrebbe falcidiato tante vite. Magari l’appunto di Rousseau vi sembra ancora più attuale: perché guardate a Ischia. Guardate, allora, con più acume alle pendici su cui Leopardi cantava la ginestra od alle torri al “modesto benessere” che si arrampicano nel cielo di Reggio Calabria e, perché no, riflettete meglio sul cambiamento climatico: se non contate sulla provvidenza.
In ogni modo; che cosa difetta al dibattito pubblico, e perciò politico, è la totale assenza di gravitas: che si spinge ad altezze ineguagliabili, nel campo conservatore, e si stacca appena dal fondo, nel campo sedicente progressista. Per esempio, il candidato nominato alla guida del campo progressista, Bonaccini, sostiene che il progresso della Regione Emilia-Romagna è rappresentato dai potenti mezzi a disposizione dell’amministrazione. Il “progresso” nell’Emilia-Romagna sarebbe, a detta sua, la disponibilità d’un super calcolatore elettronico. Benissimo, per carità, ma trattasi di progresso tecnico: non umano! Quanto il progresso tecnico non vada, sempre, a braccetto con quello umano lo insegna, fra gli altri, il Progetto Manhattan: che ha visto, nell’atomo, un’arma. Ciò a dire non ha cambiato d’un centimetro lo sguardo con cui, la scimmia di Kubrick, guardava all’osso da scagliare in cielo.
Non ci siamo.
Il progresso politico, vale a dire la possibile esistenza di un’”area progressista”, è sostenuta dalla lettura di Platone: segnatamente de La Repubblica. Machiavelli, ad esempio, non è affatto un progressista: guarda all’antichità classica ma scrive Il Principe. Non crede nell’”età dell’oro”, nel “paradiso in Terra” né nel “sol dell’avvenire”: che, poi, sarebbero la stessa “cosa”. Machiavelli non crede neppure nella provvidenza umana: quella su cui insistono, senza darne contezza, i miei padri illuministi. Riconosce che sarebbe bella una polìs senza stasis e che questa fosse retta a Repubblica: ma non la considera una faccenda per uomini, “in generale”. In termini spiccioli, Machiavelli persegue l’optimus ma non il perfectus: Machiavelli conosceva l’antichità meglio dei miei padri.
Poi è arrivato un cristiano, che più cristiano non si può, che ha segnato la strada per il “paradiso in terra”. Il “paradiso in terra”, il “sol dell’avvenire” e l’”età dell’oro” sono la trasformazione tropologica della stessa cosa: tenetelo sempre presente! Senza il Leviatano, nessuno avrebbe mai osato pensare ad una via politica per l’eternità! L’eternità è la fine della storia: è il traguardo escatologico che, ad occhi chiusi, è dato immaginare. Non fatemi credere di non averlo mai accarezzato. Un bel giorno vi svegliate nei luoghi della vostra infanzia e, lì, trovate tutto ciò che avete amato e toccato con mano. C’è vostra madre, vostro padre, i fratelli, gli amori e gli amici che avete smarrito durante il cammino: se avete perso un figlio, c’è anche lui. Non c’è miseria, né bisogno e, soprattutto non c’è conflitto (stasis). Va da sé che, da buoni adepti di Paolo di Tarso, siete lì col corpo; vale a dire li potete carezzare, baciare, amare ancora, ed ancora ed ancora: per l’eternità!
Se pensate che lo stesso non valga per me, vi sbagliate di grosso.
Questo, naturalmente, è il paradiso individuale da cui è piuttosto semplice estrapolare il paradiso collettivo: il paradiso in Terra è la pace tra gli uomini. In altri termini è una societas, un patto legale, col quale si rimuove ogni conflitto: si libera la polìs dal male! Secondo Platone, il “male” della polìs è esattamente quello che credete voi: che siete tanto cristiani quanto platonici. Platone, ne La Repubblica scrive: “L’ingiustizia è il maggiore di tutti i mali dell’anima, la giustizia il massimo del bene” (…) “in modo che ognuno divenga il miglior guardiano di sé” (…) “e liberi e schiavi smettano finalmente di odiarsi e contrastarsi”. Eccolo qui, il progresso politico!
I padri illuministi, da cui i R-I-V-O-L-U-Z-I-O-N-A-R-I francesi, sono andati a rovistare negli archivi dell’antichità per costruire una forma di governo (La Repubblica) in cui il dominio della legge, fondato sul potere del popolo, ponesse fine al dominio dell’uomo sull’uomo! Sono le stesse, identiche, parole che trovate scritte nel Manifesto di Marx: se avete cuore di leggere. Capito bene il progresso politico?
Per questo i rivoluzionari francesi seminavano le querce nelle piazze. Per questo il povero Achille Occhetto aveva voluto la quercia nella liturgia del Partito Democratico della Sinistra! I rivoluzionari francesi hanno combattuto per tutta la vita e la pace, personalmente, non l’hanno vista mai: non per questo hanno smesso di credere. Hanno compiuto atti discutibili, su questo non c’è dubbio, e sono stati persino vinti sul campo. A tal proposito, mi piace ricordarne l’eroismo a Waterloo e vorrei che, anche voi, non scambiaste il godimento nelle vostre vite con lo scopo d’essere al mondo. “Grenadiers de France, arrene vous!” (Granatieri di Francia, arrendetevi), urlò un generale del Duca di Wellington, alle spalle dei cannoni. La Vecchia Guardia non aveva scampo: l’alba avvenire l’avrebbe vista in catene. Intanto, però, gl’Inglesi avrebbero marciato su Parigi: per cui non sarebbero stati i soli francesi a finire in catene. Preferirono farsi massacrare e concedere a Parigi il tempo per organizzare le difese. Pensavano, poveri scemi, di dover difendere la rivoluzione: pensavano di dovere perché dovevano! Salutarono il mondo con un epiteto degno di Pasolini:
“Merde!”