Incontri ravvicinati: intervista a Sandro Lombardi

0
358
SANDRO LOMBARDI. foto © Masiar Pasquali

Sandro Lombardi, Federico Tiezzi, Marion D’Amburgo: sin dagli anni ‘70 furono i pionieri di una nuova iconoclastia teatrale, prima con Il Carrozzone, poi con i Magazzini Criminali, miracolose fucine la cui nascita fu frutto di una ribollente spontaneità, che però aveva una base di istanze, di saperi, di storia. Ad oggi la Compagnia Lombardi-Tiezzi è una delle compagnie teatrali più interessanti nel panorama nazionale.

Sandro, lei è nato a Poppi, un luogo della cui storia, legata alle vicende dei Conti Guidi, si respira ancora il profumo camminando per le strade intorno al Castello in cui soggiornò anche Dante Alighieri. E intorno la magia delle foreste, dei monasteri, dei santuari. Esiste secondo lei un legame imprescindibile fra il luogo in cui uno nasce e il futuro della propria individualità, anche se sviluppata lontano da questi luoghi?

Il luogo in cui sono nato e ho vissuto infanzia e adolescenza mi ha aperto gli occhi al mondo e alla vita. Il Casentino, poi, come lei dice, è un luogo speciale, carico di vibrazioni sia naturali sia storiche e spirituali. Marisa Fabbri diceva che gli attori nati in Casentino sono attori bravi perché hanno le forze ctonie, qualcosa che è legato alla terra e celato nel suo profondo, connesso agli arcani che si perdono nelle grasse viscere attorcigliate di umo e radici. Chissà, magari è vero. Magari in quelle viscere, tra quelle foreste, si nasconde un minerale che agisce sulla psiche delle persone. Ho abitato, tra 1979 e 1999, lunghi periodi in Marocco, in una cittadina spiaggiata su giacimenti di uranio, e vidi come nel paesaggio, nella gente e nei loro manufatti si riscontrasse qualcosa di obliquo, uno sguardo leggermente sfasato rispetto all’ortogonalità della “norma”. Viene in mente la formulazione di Rudolf Wittkover Nati sotto Saturno, un bel libro del 1963, con la quale lo studioso tedesco indicava artisti malinconici, stravaganti, obliqui, lunari: saturnini, appunto. Come è Paolo Uccello, nato a Pratovecchio.

Lei ha frequentato il liceo, e poi è partito per altri lidi.

Sono avvenute in me varie rivoluzioni copernicane. Da bambino, Poppi era il centro del mondo, intorno a cui ruotavano tutti gli altri luoghi (ma anche le emozioni, gli interessi, gli affetti, i timori); poi il centro del mondo divenne Arezzo e Poppi le era satellite, poi Arezzo iniziò a ruotare attorno a Firenze e poi Firenze attorno a Roma… e via via tutto si è spostato verso centri sempre più grandi, ma la forza dell’imprinting che un luogo esercitava su di me diminuiva man mano che si allargava il suo raggio d’azione. Il Casentino, con il suo fiume, i suoi borghi e castelli, le sue foreste, i suoi eremi e monasteri, resta per me il luogo che mi ha fatto conoscere tutto il bene e tutto il male del mondo.

Come è nata la collaborazione con Federico Tiezzi e Marion D’Amburgo?

L’amicizia con Federico è nata ad Arezzo, frequentavamo il Liceo Francesco Petrarca, con Marion invece non eravamo compagni di scuola ma lei era molto amica di Federico, tutti e due sono originari di Lucignano ed è nato tutto così, quasi per gioco. Poi via via il gioco è diventato una cosa sempre più seria.

Così è nato Il Carrozzone. Perché la scelta di questa parola per denominare un gruppo di teatro?

Anzitutto per il suo alludere a qualcosa di collettivo e in viaggio, a un luogo della solidarietà. La definizione Il Carrozzone doveva comprendere un po’ di tutto: qualcosa che vaga, che gira di paese in paese, la metafora del viaggio, dell’avventura, i giostrai girovaghi, gli zingari dei circhi, e c’era anche la Banda dei Cuori Solitari del Sgt. Pepper, il capolavoro dei Beatles, e c’era Pinocchio, c’era il romanzo di Carlo Coccioli ambientato tra Poppi e Ponte a Poppi (Fabrizio Lupo). In paese poi veniva denominata “carrozzone” l’ambulanza che veniva a prendere i malati di mente, per portarli al manicomio di Arezzo. Ho ancora in mente l’immagine di una donna stretta nella camicia di forza e caricata là sopra contro la sua volontà. E così in quel luogo aurorale della mia vita, oltre alla bellezza, imparavo anche il dolore e la sofferenza, accanto al bene il Casentino mi mostrava il male. In questa accezione del termine legata alla malattia mentale c’era un rimando al fascino del teatro di Antonin Artaud: divergente, fuori da ogni canone, esoterico, con sfumature di follia.

Dopo il Carrozzone arriva la nuova denominazione: Magazzini Criminali. Criminali perché?

Per lo stesso bisogno di dichiarare un discrimine, una protesta contro il mondo borghese, l’ammissione di non sentirsi mai quadrati né inquadrabili, mai in regola.

All’epoca ero rimasta molto colpita dal vostro spettacolo Genet a Tangeri, 1984, a proposito del quale lei scriveva che vi si ipotizzava «uno spazio scenico che fosse metafora della separazione fra vivi e morti, lasciando il dubbio su chi, tra gli attori da un lato e gli spettatori dall’altro, separati dal filo spinato, fossero i vivi e chi fossero i morti» (S. Lombardi, Gli anni felici, 2004).

Genet a Tangeri era nato sulla spinta di varie motivazioni: una ricerca di libertà, lo struggimento per luoghi esotici (Genet dichiara il suo amore per «quella landa di noi che chiamo Spagna»), e infine, come lei dice, il desiderio di suggerire una dimensione fantasmatica. Era una riflessione sul mistero del teatro: fino a che vedi uno spettacolo hai di fronte persone in carne e ossa, quando si chiude il sipario torni a casa e nella memoria rimangono dei fantasmi, delle creature che, pur non avendo già attraversato la Soglia, sembrano già in una dimensione “oltre”. Ma fanno venire anche il dubbio su chi sia veramente fantasma. E se fossero loro i vivi? E se fossimo noi i fantasmi?

La dimensione onirica mi sembra che abbia rivestito un ruolo importante nel vostro teatro.

Certamente. Non a caso uno degli spettacoli più significativi di Tiezzi è stato L’interpretazione dei sogni nella drammaturgia da Freud di Stefano Massini, 2018. Diversi anni fa avevamo il progetto di fare La Vita è sogno di Calderón De la Barca ma ancora l’ipotesi non si è realizzata. Nel 2007 mettemmo in scena il capolavoro incompiuto di Pirandello, I Giganti della montagna, con le due compagnie degli Scalognati e della Contessa alle prese con i misteriosi giganti e con le apparizioni spettrali, nel 2005 Gli uccelli di Aristofane, dove l’utopia politica si tinge di aspetti onirici.

Ho letto questa sua dichiarazione: «Il miracolo chiesto all’attore è quello di sanare l’antinomia fra la realtà e l’idea di fonderla con il linguaggio, perché il teatro risiede dentro le parole».

La parola riveste per noi un ruolo importante, perché ci siamo arrivati da una posizione opposta, cioè dal silenzio: i primi 5 anni di lavoro sono stati di spettacoli muti, silenziosi, fatti solo di immagini oniriche. Il fatto è che sentivamo nella parola, nel verbum, una sacralità irraggiungibile e intoccabile. La sua conquista fu per noi lenta e graduale. Molti ci accusarono di tradimento perché negli anni settanta c’era stata un’onda di teatro che combatteva il cosiddetto “teatro di parola”. In realtà il nostro silenzio non era contro la parola, la coltivava implicita nel pensiero e quindi si trattò di arrivare alla sua assimilazione da un’altra angolazione, non dalla visione gerarchica (prima il testo, poi il regista, poi gli attori), ma da un sentimento quasi di venerazione. Non volevamo usare la parola come un banale strumento di conversazione. In questo percorso furono di grande aiuto due scrittori: Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. La parola come ratio in Pasolini e la parola come strumento per incarnare visceralmente la tragedia di ogni creatura, in Testori.

La parola scava e si scaglia. La parola è teatro puro. Il fatto che la essa sia scritta è una convenzione, senza l’organo fonatorio la parola è inerte. Sono sempre stato contrario alla lettura mentale della poesia. La lettura a voce alta, il momento in cui interpreti un testo, in cui gli dai corpo, sostanza fisica, è anche una forma di esegesi, una strada per la comprensione.

Nel suo libro dal titolo Gli anni felici. Realtà e memoria nel lavoro dell’attore lei scrive: «Ci sono, nella carriera di un artista, momenti diversi, tutti necessari. Alcuni sono felici, segnati dalla grazia. Altri sono fangosi, oscuri, di doloroso brancolare nel buio. Sono utili anche questi: in genere preparano il ritorno della luce, quando il diaframma tra i desideri espressivi e la loro realizzazione sembra farsi sottilissimo».

Lo sottoscriverei tutt’ora: succede raramente che la preparazione di uno spettacolo sia tutta serena, spesso ci sono momenti di conflitto, di deserto, quando sembra che nulla vada a posto, che tutto sia incomprensibile, oppure momenti di giungla, quando troppe idee si affollano nella testa… però questo è il tirocinio per arrivare alla comprensione del proprio ruolo scenico. Non è un processo lineare, non è tutto automatico, al contrario si attraversa il fango, la paura, il vuoto.

A questo proposito quanto ha pesato la pandemia nel territorio interiore dell’attore, oltre agli aspetti economici?

La pandemia ci cadde addosso mentre al Piccolo Teatro di Milano facevamo il Faust di Goethe. Non riuscimmo a finire le repliche e cominciò l’incubo: fisicamente e psichicamente chiusi in casa, segregati. Però, in contrasto con la solitudine, la paura, l’angoscia, lo sgomento, curiosamente, anche se ho già detto essere molto raro che la preparazione di uno spettacolo sia tutta serena, il primo lavoro realizzato dopo la pandemia ebbe una gestazione fluida e senza intoppi. Si tratta di Antichi Maestri di Thomas Bernhard, 2020, tuttora in tournée. La pandemia, inoltre, ci ha insegnato che non tutto è scontato e che quello che si può realizzare è sempre e comunque un miracolo, e i miracoli vanno trattati con i guanti di velluto. Ritrovare il lavoro, ritrovare i compagni di palcoscenico, ritrovare gli spettatori… niente era scontato. Insomma, paradossalmente la pandemia è stata anche una pausa benefica, lo stimolo per una rinascita. A livello economico, certo, è stata un disastro.

La collaborazione con il grande poeta Mario Luzi ha visto nascere diversi capolavori come il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, in cui, secondo me, il lavoro degli attori è stato magistrale.

Venti anni di amicizia con Mario Luzi! Con lui abbiamo fatto Il Purgatorio, 1990, le Felicità turbate, 1995, che era un testo sul pittore manierista Jacopo da Pontormo. In entrambi i casi eravamo stato noi a sollecitare Mario a scrivere su quegli argomenti. Fu invece Mario a chiedermi di interpretare la sua Via Crucis al Colosseo il Venerdì Santo del 1999, durante le celebrazioni officiate da Giovanni Paolo II. Infine, nel 2004, fu la volta del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, che ci fu richiesto da Maria Antonietta Grignani per il Comune di Siena. Ma poi ho fatto dozzine e dozzine di serate, di reading poetici sui suoi testi, principalmente in Toscana ma non solo: viaggi, momenti di condivisione, letture, cene, attraverso cui nasceva e si consolidava l’amicizia.

Uno degli ultimi lavori è stato Cuore di cane di Bulgakov nel 2019, con la regia di Giorgio Sangati, nella versione per la scena di Stefano Massini. Qui non troviamo alla regia Federico Tiezzi.

A tutt’oggi il sodalizio con Federico è lungo, duraturo e quasi esclusivo: abbiamo la compagnia insieme, quasi tutti i progetti sono in comune… ma ho lavorato anche con altri registi: Carlo Quartucci, Giancarlo Cobelli, Sangati appunto, Arturo Cirillo, Roberto Latini e prossimamente lavorerò con Pascal Rambert, al Piccolo di Milano.

È molto interessante come un’amicizia nata ai tempi della scuola possa poi durare tutta la vita dando dei frutti meravigliosi.

Di sodalizi fra attore e regista, ce ne sono e ce ne sono sempre stati: Romolo Valli e Giorgio De Lullo hanno lavorato insieme per anni e anni,  e così Franco Enriquez e Valeria Moriconi; ma anche Giorgio Strehler e Valentina Cortese, Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Luchino Visconti e Rina Morelli, Luca Ronconi e Marisa Fabbri, Carlo Quartucci e Carla Tatò… Ci si evolve insieme, nel senso che va avanti uno, poi l’altro si riallinea, e va avanti l’altro e così via.

Pensando anche al Viaggio di Simone Martini: si sa che i viaggi spesso non servono a dare risposte ma a suscitare domande. C’è un viaggio che Lei, in questo momento storico vorrebbe fare? Un viaggio reale su strada oppure un percorso nuovo all’interno della drammaturgia?

I viaggi che vorrei fare sono tutti nel tempo, perché i luoghi non sono più quelli di una volta, e io vorrei tornare nella Sicilia di 50 anni fa, nella Romagna di 60 anni addietro, vorrei tornare nel Marocco di 40 anni fa, che ora è cambiato in modo impressionante, e ancora cambierà. Nel teatro vorrei tornare a fare Čechov, il mio autore prediletto, la sola occasione purtroppo di farlo è stata nel 1999 con Zio Vanja.

Lei ha una lunga carriera di interprete, come crede sia cambiato il ruolo dell’attore nel teatro contemporaneo?

Cambia, cambia sempre ma in fondo il senso dell’attore nella società e nel rapporto con gli altri lavoratori dello spettacolo resta lo stesso. Nell’immediato dopoguerra ci fu la rivoluzione del teatro di regia, portata avanti da Strehler, Luigi Squarzina, Visconti, Orazio Costa, Mario Missiroli, che misero ordine nel disordine del teatro capocomicale; tra gli anni ’70 e ’80 l’attore cominciò a sentire il bisogno di una partecipazione non esclusivamente performativa ma anche culturale: il Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, 1968, auspicava la venuta di un attore consapevole non solo della sua prestazione performativa ma anche degli aspetti culturali del suo ruolo, una posizione non troppo diversa da quella di Bertolt Brecht, che voleva un attore che non si limitasse a stare dentro al suo personaggio ma prendesse posizione verso quel personaggio. In realtà esiste una tensione continua, feconda anche se a volte dolorosa, fra l’attore e il regista.

Pensando al Casentino che cosa è per te il ritorno a casa?

È un ritorno a casa mentale, non realizzabile, è un ritorno a quell’infanzia, quando Poppi era il centro del mondo, agli aspetti legati al bene che quel luogo poteva dare quando ancora non avevo conosciuto l’aspetto maligno del reale, è un qualcosa che sta solo nel sogno, è il ricordo, la memoria. Ricordo i ritorni da scuola, eravamo una intera classe che da Poppi scendeva a Ponte a Poppi, nella memoria però mi vedo sempre solo, chissà per quale motivo. Quel pezzo di strada che tutti chiamavano Via Nuova, che dalle scuole scendeva giù verso il fiume, è l’immagine del cuore. Ricordo con piacere anche la balera dove andavamo a ballare davanti al Castello, una rotonda, all’aperto. Ne parla anche Giorgio Albertazzi in una bella pagina della sua autobiografia, Un perdente di successo.

Ha mai pensato di mettere in scena alcune novelle di Emma Perodi?

Un tempo ci cominciai a lavorare attorno, ma il progetto non ha mai decollato.

 

 

 

 

 

 

 

 

Previous articleVoci dal Casentino: “La torta preferita di papà”
Next articleCentro civico Soci: si aprono le porte ai servizi comunali per il cittadino
Daniela Tani
Laureata in Lettere moderne, insegna Lingua e letteratura italiana. Ha pubblicato: L'ospite cinese, Del Bucchia Editore, 2013. Kebab per due, Autodafè, 2015. D'amore e d'altro, Alter Ego, 2017 recensito da Valerio Aiolli su Il Corriere della sera di domenica 4 agosto 2019. L'amico di lei, Smith Edizioni, 2020. Ha frequentato in varie sessioni i corsi e e le Full immersion della Scuola di scrittura Omero di Roma. Collabora alla rivista “Accademia Casentinese” “Giornale di Lettere, Arti, Scienze ed economia” con articoli riguardanti le scrittrici italiane del '900. Per “Achab” è in uscita il suo articolo su Pier Paolo Pasolini “Al cuor non si comanda”. Conduce corsi di scrittura creativa patrocinati da Enti pubblici e associazioni, in particolare Fondazione Circolo Rosselli, Comune di Pratovecchio-Stia (AR). Vive tra Firenze e le Foreste Casentinesi.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here