I paesi membri della Comunità Europea importano gas naturale dalla Federazione Russa per un corrispettivo indefinibile. Ho letto MI, Il Sole, il Corriere ed altre testate ma non ho mai trovato un difetto d’esattezza così impraticabile come quello sulla cifra che l’Italia paga, per tirare avanti, a Putin: che così tira avanti la guerra in Ucraina. Ho deciso, quindi, di prendere per buoni i 52.463.565.000 Euro riportati da Eurostat e riferibili al 2020. Assumiamo per certo che l’Italia finanzia la campagna bellica della Federazione Russa per circa 52-53 miliardi all’anno: qualunque corrispettivo offerto all’Ucraina, in armi, aiuti umanitari, finanziamenti sul debito e tutto quanto ci volete mettere, non arriverà mai, e poi MAI, ad una cifra confrontabile a 52-53 miliardi all’anno.
Posto che, in un modo o nell’altro, finanziamo tanto l’Ucraina quanto la Federazione Russa, se dipendesse dall’Italia, il conflitto avrebbe un esito scontato. Paragonati a 52-53 miliardi elargiti alla Russia, qualunque cosa offriremo all’Ucraina non supererà la dimensione della mancetta: buona per calmare la cattiva coscienza e basta. Potremmo maledire, a ragione, l’ost politik della Merkel ma servirebbe a poco. Questa è la situazione in cui siamo e non c’entra un fico secco la retorica sui “condizionatori”. C’entra, piuttosto, la carneficina dell’essere umano che, come capirete di seguito, non è circoscritta al conflitto.
Jep Gambardella, il protagonista della Grande Bellezza, è un impiegato dell’industria culturale: famoso per la sua opera prima, l’Apparato Umano, al quale non ha saputo dare un seguito. L’Apparato Umano non è un libro. L’Apparato Umano, al di qua dello specchio, è un film di Paolo Sorrentino e non è neppure la sua opera prima: il film s’intitola Le Conseguenze dell’Amore. L’avete visto, l’avete apprezzato e siete d’accordo che Le Conseguenze dell’Amore è un miracolo al quale Sorrentino stenta a dare un seguito: proprio come Jep. Si vive benissimo così, per carità, ma quando s’è detto di “quelle 4 verità di cui disponiamo” (lo dice Sorrentino nell’ultimo film), rimane poc’altro da dire: persino Bauman, sulla cresta de La Società Liquida, ha scritto solo d’umori liquidi (L’Amore Liquido, La Modernità Liquida, La Vita Liquida, La Paura Liquida, ed altre amenità da liquidare). Ebbene, cosa aveva da dire Paolo Sorrentino è ispirato dall’Eclisse della Ragione di Max Horkheimer: coltivato passeggiando per i vicoli di Napoli. Qualcuno gira in vespa per Roma, od insiste sulle pendici dell’Etna od all’Albergaccio, altri s’aggirano per Sils Maria e c’è chi si è piantato sull’isola di Jura; qualcuno s’è costruito un Vittoriale: io mi trovo in giardino. Non lo scopro io il buon rifugio: semmai approvo!
Poi succede qualcosa che tira fuori il genio, il dáimōn, e non è mai qualcosa d’allegro ma di umano.
Titta Di Girolamo è un commercialista di mezz’età che vive, oziando, in un albergo: quel genere di posti dove non succede mai niente. Separato, insonne e moderatamente drogato, s’aggira per una Lugano spettrale, popolata di fantasmi: il concierge, la visita d’un fratello, la telefonata ai figli, qualche viandante ed una coppia d’anziani, con cui s’intrattiene giocando ad asso piglia tutto. Titta Di Girolamo sembra il professionista del triangolo musicale: quello che entra nella partitura, con un suono indeterminato, al momento giusto. Il momento di Titta è la contabilizzazione ed il deposito, dall’albergo alla banca, dei proventi criminali della mafia: su un conto a lui intestato. Sarebbe iniquo chiamarlo semplicemente un prestanome; Titta Di Girolamo è ciò ch’è sempre stato: un lavoratore che presta la vita all’attività che svolge. La vita che gli scorre davanti, per altro, non manca di un qualche agio.
Poi, come nei migliori spettacoli di magia, avviene la svolta e, cosa sembrava normale, diventa straordinario. Seduto nel bar dell’albergo, la faccia rivolta alla barista, Titta Di Girolamo prende un appunto: “progetti per il futuro: non sottovalutare le conseguenze dell’amore”. Così, Titta, prende a deviare dal grande piano stabilito per lui: sottrae centomila euro alla mafia e la passa liscia. Regala, per semplice liberalità, un’auto di lusso alla bella Sofia, le compra dei bei vestiti e le conferma di non aver bisogno di nessuno. Si accordano per festeggiare il 50° compleanno di Titta insieme ma lei non ci sarà. Intanto arriva la solita valigia di soldi ma, questa volta, due ingranaggi che saltano si piccano di rubarla: Titta reagisce e recupera il “maltolto”. Prende la valigia e si ferma ad aspettare chi non verrà.
Sofia ha avuto un incidente ed il commercialista realizza che non c’è salvezza. Ma se non c’è salvezza, ormai l’ha capito, c’è ancora la vita: la sua vita. Lascia la valigia sulla soglia di due disgraziati e rimedia alla sfortuna di chi s’è affidato alla sorte: poi prende il telefono e si costituisce alla mafia. In 6 minuti di piano sequenza, Sorrentino descrive il bunker di Cosa Nostra: un mondo che pullula di Titta Di Girolamo; ognuno fermo, da qualche parte, pronto col suo triangolo perché la musica non si fermi. Al vertice della piramide un disgraziato: uno che vive di passaggio, in un albergo come Titta, su cui campeggia lo stendardo del decimo corso d’aggiornamento sull’ipertrofia della prostata! Il Boss s’accerta delle buone ragioni di Titta, controlla che il commercialista sia un ingranaggio sostituibile e lo spedisce a rinforzare i pilastri di cemento. Sarebbe bello credere che così è (solo) la mafia ma è ovvio che così non è.
Titta Di Girolamo scivola oltre, insieme al suo coraggio, con un ultimo pensiero: “Una cosa sola è certa, io lo so. Ogni tanto in cima a un palo della luce, in mezzo a una distesa di neve, contro un vento gelido e tagliente, Nino Giuffré si ferma, la malinconia lo aggredisce e allora si mette a pensare. E pensa che io, Titta di Girolamo, sono il suo migliore amico”. Capite bene che Titta Di Girolamo, in quanto umano, contiene un ordine di sapere superiore al commercialista: la cognizione del bene e del male. Non se la prendano i commercialisti; il “sapere” del medico, del quality manager, del muratore quanto del colono è della stessa natura: un qualche schema d’azione entro il quale le Idee, i concetti, i principi, ed i “valori” sono veri solo, ed in quanto, hanno successo; falsi, se falliscono.
Converrete con me che il gesto di Titta non ha, di certo, cambiato le sorti del “sistema”, ovvero è un enorme fallimento: semmai, Di Girolamo, si è chiamato fuori dall’”organizzazione”. Ha preferito ex-sistere (esistere è, appunto, lo “star fuori”) invece di rinunciare completamente a sé per amore del grande fratello. La cosa buffa è guardare l’esperienza di Titta Di Girolamo con gli occhi dell’organizzazione ed io, nei miei trascorsi, l’ho fatto: concludendo che Titta Di Girolamo ha la sindrome del burn-out! In altri termini, il nostro commercialista, o chi per lui, s’è preso un esaurimento nervoso: s’è ammalato ed andrebbe curato! Ora, capite bene che il solo pensare di cambiare l’ordine delle cose capeggiando una manica di “esauriti” è piuttosto ridicolo: ci vuole qualcosa che, pur non avendo nessuna coscienza del bene e del male, possa dispiegare una ragione strumentale alternativa. Nel caso della mafia, o dell’azienda, ci vuole lo Stato ma contro lo Stato ci vuole un altro Stato.
Per cui non v’illudete; non è filantropia quella che consente la resistenza dell’Ucraina: è l’intervento di un’altra ragion di stato alternativa a quella russa che, poi, si prodiga a muovere le coscienze. Il solo proporre l’alternativa fra la vita umana ed il condizionamento dell’aria è, in questo senso, di una volgarità inaudita. Un’entità, fatta salva quella degli Dèi e solo per chi ci crede, non prova nessun affetto per la carne che consuma; non ne prova lo Stato, né l’azienda né la mafia né la Chiesa e, più in generale, qualunque istituzione incorporea: persino le Onlus! Semmai siamo noi chiamati ad amare l’entità ovvero a ribellarsi: tertium non datur. Perché? Perché gli Esseri Umani non sono macchine: non sono apparati. Se sono umani hanno la consapevolezza del bene e del male: un “sapere” che trascende il ragionevole, trovato chissà dove ma orientante. Tanto banale e immediato che è disponibile anche ai Fratelli Ca(rama)zzotti: quelli inventati da Diego Bianchi e che si esprimono con “beene”, “beene”, “Tizio lo vedo beene”.
Vorrei, ma evidentemente non posso, dirvi che c’è qualcosa di ragionevole al fondo di tutto questo: ma non c’è. È una proprietà dell’animato che lo spinge a comporsi in selve, e boschi, piuttosto che desertificare il circondario; ad avvicinarsi al cane, se sei un cane, ed alle blatte, se sei una blatta; ed a scegliere d’accompagnarsi al gatto, piuttosto delle mosche, per pura felicità dello sguardo. Perché Lugano è più bella sotto braccio ad una ragazza o, se preferite, Lugano mancherebbe di qualcosa senza di lei. Ebbene, questa insufficienza è tutta umana e regge lo sguardo dell’affettività (quella che Kant intendeva come ragion pratica): è un “imbecille”, ma è mio figlio, è una “donna leggera”, ma è mia moglie, è un “uomo inutile”, ma è mio padre, è un “morto di fame” ma è mio amico. A questi “principi”, “valori”, “idee” L’UMANO DEVE OBBEDIENZA: deve perché deve. Infrangeteli e vivrete una vita di rimorsi, sensi di colpa e spenderete l’esistenza a rimediare: naturalmente, se siete umani. Se vi serve un riferimento visivo vi rimando volentieri a La Leggenda del Santo Bevitore di Ermanno Olmi.
Gli enti morali, le istituzioni, le entità non funzionano così: o così non dovrebbero funzionare. Ve lo immaginate un Presidente del Consiglio che, per far soldi col gas o col petrolio, dirige uno stato dove non dovrebbe andare? Se non lo immaginate, provate a pensare Schroeder, Bush (sia padre che figlio), Craxi, Berlusconi o Renzi: tanto per dirne alcuni. Ve lo immaginate, un Consiglio d’Amministrazione che elegge un perfetto idiota come Amministratore Delegato solo perché figlio, ancorché illegittimo, dell’Amministratore Delegato uscente? Perdonate se mi riservo di citare l’esempio, se lo sapete già, avete capito da soli. Ecco. Questo modo di procedere, di una entità, sarebbe visto con disprezzo per una ragione semplicissima. Le entità sono rette dai doveri inscritti nei loro scopi (Testi Sacri, Costituzioni, statuti, etc.) ai quali L’UMANO, che vi partecipa, DEVE OBBEDIENZA.
Capite bene che i due sistemi valoriali (quello dell’entità e quello umano), fossero anche solo schemi d’azione (vale a dire con valore pragmatico), neppure si parlano. Ciò a dire che, se c’è un modo subdolo per richiamare l’obbedienza cieca ad uno Stato, non c’è frase più felice di far confliggere l’interesse personale (al condizionamento dell’aria) con i “valori” dell’entità (la pace): come se, l’umano, fosse solo un portatore d’interessi, e non anche di valori, al cospetto d’una entità (statuale nel caso in esame) portatrice di valori ma non d’interessi. Ma Draghi, dai Gesuiti, su quali testi si è applicato, sulLa Fattoria degli Animali!? Per parte mia non ho nessuna difficoltà a rinunciare ai miei interessi quanto sospendere il mio libero arbitrio in favore dell’entità: a patto che i “maiali” facciano altrettanto. Accetteranno, i “maiali”, un’equa ridistribuzione del costo che dobbiamo ai nostri comuni valori di pace? Voglio dire: sua eminenza Mario Draghi aumenterà la pressione fiscale sui più abbienti, in previsione dell’aumento dei prezzi al consumo?
Silenzio.
Ecco. Se c’è una cosa che mi ribolle il sangue è proprio l’ingiustizia: il gravare di peso chi meno ha forza. Per questo l’unica entità nelle mie corde è retta dal principio familiare: “ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”. Ciò non di meno non mi reputo un idealista. Credo, semplicemente, che l’assoluto appartenga al mio sguardo, alla felicità del mio sguardo, con cui osservo il circondario: anche le entità! Misurate coi miei occhi, le entità statali che pretendono di occuparsi della felicità dei cittadini, o del wellfare, sono seconde solo a quelle che s’impegnano a rimuovere la disuguaglianza sociale: fermo restante che lascio volentieri il processo incrementale, di questi valori arbitrari, a chi mi governa. Non sono affatto sicuro che lo Stato che mi ospita si sia mosso in questa direzione; piuttosto, negli ultimi 40 anni, s’è mosso in direzione ostinata e contraria: ma questo giudizio sono io.
Chiamato a giudicare, con riguardo a ciò cui DEVO OBBEDIENZA, preferisco un’azienda alla mafia: perché l’azienda ti licenzia quando la mafia ti semina in un pilastro. Preferisco lo stato di diritto, che fatica ad arrestare un giornalista come Assange, alle dittature, che sparano alla Politkovskaja in ascensore. Preferisco lo stato di diritto, che mi permette d’esprimere le mie opinioni, piuttosto che venirmi a prendere a casa, di notte. Preferisco lo stato di diritto per il rapporto di “garanzia” coi cittadini, mentre persegue i propri fini. Amo lo stato di diritto per la sua insufficienza! Perché lo stato di diritto, più spesso di quanto è dato a credere, è inefficiente ed ha bisogno dei suoi cittadini. Cittadini di cui consumerà la carne, non v’illudete, ma ai quali è consentito scegliere se n’è valsa la pena. Nessuno, e men che meno io, dovrebbe decidere della ragion di stato; né confondere questa con la propria ragione: semmai è in predicato l’obbedienza. In effetti nessun cittadino dovrebbe disporre autonomamente della ragion di stato: soprattutto nello stato di diritto. Ma gli stati di diritto, le “democrazie”, sono così meravigliosamente inefficienti che devono far qualcosa per farsi preferire ai totalitarismi: e questo mi piace!
È per lo stato di diritto che si combatte in Ucraina. Combatte il Battaglione Azov, che nello stato di diritto è tollerato invece d’esser passato per le armi. Combatte il “maiale”, che invece d’evadere il fisco dello stato di diritto, si ritrova rovinato al gesto del tiranno. Combatte il padre per il figlio, la moglie per il marito e l’amico per l’amico senza temere che quest’ultimo lo denunci alle forze dell’ordine. Combatte l’intellettuale, perché è libero di combattere invece d’accucciarsi alla catena del padrone. Combatte il comunista, perché la dittatura del proletariato, qualunque cosa sia, non è di certo la soggezione dell’umano. Combattono gli stati, in Ucraina, per allontanare da sé la voglia di trasformarsi in tirannide. Combattono gli uomini, in Ucraina, per mantenere il giusto rapporto fra sé e lo Stato: proprio perché non coincidono con questo e va benissimo così. Se gli uomini hanno una qualche entità d’amare, se la scelgono loro da soli: foss’anche uno Stato, una Nazione, una Patria, un’azienda, un’organizzazione o qualsiasi altra cosa terrena ergano a proprio Dio.
In questi termini, io combatto in favore dell’Ucraina. A quale costo? Ma che domanda sciocca! Ad ogni costo, altrimenti quale assoluto, quale principio ordinante sarebbe? Se lo trovate “machiavellico” avete proprio ragione ma, per favore, evitatemi la retorica sui condizionatori: gli uomini non vivono, né muoiono, per fare shopping. Non, almeno, gli uomini che preferisco io: “belli”, ai miei occhi. Capisco che Draghi guardi altrove.
Eppure Draghi finge di chiedere a me, del quale non se ne può fregare di meno, se acconsento a contrarre le mie pretese materiali in favore d’un principio astratto. Chiede il mio consenso, udite, udite, sulla legittima interruzione delle forniture di gas dalla Russia per combattere l’aggressione all’Ucraina. Ma che domande sono? È lui chiamato ad interpretare la ragion di stato e non io: che si muova con l’efficacia e l’efficienza consentita dalla miglior scienza ed esperienza. Chiuda subito, e con la massima brutalità, il rubinetto del gas che finanzia il tiranno. Rimetta la ragion di stato dell’Italia (il pareggio di bilancio in Costituzione che s’è prodigato tanto ad ottenere quando era alla BCE) all’arbitrio di altri stati e vediamo come andrà a finire. Putin, che capisce la ragion di stato meglio d’un contabile, s’è mosso alla conquista dell’Ucraina proprio perché sapeva benissimo dov’era il punto di rottura dell’Italia e della Germania, se non proprio di mezza Europa “unita”. Paesi ai quali, in ossequio alla ragion di stato, non conviene osteggiare la Russia per la fortissima interdipendenza che qualcuno ha creato e che, nell’immediato, tira più d’una catena. Tira più dell’amore per lo stato di diritto!
Si faccia due conti, il Presidente del Consiglio, e ci dica come pensa di conciliare la ragion di stato del Bel Paese con la guerra in corso. Se chiedesse a me, ad esempio, avrei una dritta da suggerire: magari c’ha pensato da solo. La dritta è banale; prolungare il conflitto fintanto che l’Italia (e tutte le “democrazie” che aborrono Putin ma non la Russia) non si sarà sganciata dalla dipendenza vitale col gas russo: ci vorranno anni! Anni di sangue e di miseria che, per ora, non comprometteranno la mia personale esistenza: coglione! Anni che metteranno a dura prova le entità aziendali e le classi dirigenti della “democrazia”, più della mia misera vita: che, fra l’altro, non è inclinata allo shopping! Tu, piuttosto, sei pronto a farti crollare in testa la casa con tutti i Filistei?
Vedi, caro Mario, non so perché ma non mi dai l’idea d’essere Chirone. Fatti la domanda giusta e non chiedere a me: per me, il rubinetto del gas, avrebbe dovuto essere già chiuso. Piuttosto tu, e chi ti ha messo lì, ve la sentite di procedere in ossequio alla ragion di stato? No? Ed allora prolungate il conflitto a data da destinare, ed impegnatevi a riuscirci, senza scomodare la mia coscienza. Fra l’altro, dato che non rimetto a te la mia scala valoriale, cerca di non far coincidere la ragion di stato con il mio senso di giustizia: che aspetta ancora una sentenza su Portella della Ginestra, la giustizia per Giulio Regeni e fermo restante che sulla strage del Cermis è stata posta una pietra tombale. Sei tu lo statista, Mario: fai bene il tuo mestiere che io mi occupo della mia vita.
Perdonami se, in qualche oscuro modo, provvedo in autonomia: fallo pure tu, Mario.