C’è uno strappo nel selciato, al civico 82 di Madonna dei Monti. Qualcuno, nella notte fra domenica e lunedì, se n’è andato via con le tasche piene di sassi. Se non fosse per questo, l’apparizione di una buca nelle vie di Roma non sarebbe una notizia; non ci sarebbe nessuna transenna: la magistratura non avrebbe nulla su cui indagare.
Le buche di Roma, di solito, si danno in libertà: sbocciano, per così dire, come i fiori. Il dissesto di Roma è un fatto naturale ed ovvio, al quale non è dato rimedio: il fondo stradale si usura, le radici dei pini incalzano e le finanze del Municipio non bastano a contrastare i tempi che corrono. Le buche di Roma, ormai, sono diventate una potenza che ha battuto, in mondovisione, anche il Giro d’Italia: seconde, per fragore, solo al crollo di Genova. Nell’inciampo del civico 82, tuttavia, non c’è nulla di naturale: neppure per paradosso.
Difficile da credersi ma i fatti di via Madonna dei Monti insistono in territorio umano, attestato su orizzonti biblici. Cos’è venuto a mancare, un lunedì uggioso di dicembre, è un’opera d’arte. Non le croci celtiche sui muri, quelle che Roma ha restituito generose da quando il Sindaco Alemanno mostrò in televisione (da tal conduttrice Bignardi nel corso delle Invasioni Barbariche) la croce che portava al collo. Non i voti dei “fascisti de’ core”, che un quasi candidato PD (tal palazzinaro Marchini) invocava a sostegno per le comunali del 2016. Neppure l’esproprio “proletario” d’un edificio pubblico alle spalle di Roma Termini, quello in cui s’invita a marciare col passo dell’oca. Non il ritardo mentale delle adunate da stadio.
Un’opera d’arte, dicevo, la stessa cui sempre si rivolge l’atto Vandalico: termine in uso da quando l’Abbè Gregoire (uomo ricco di sale) chiosò così la distruzione dell’Abbazia di Cluny, travolta dalla rabbia popolar-rivoluzionaria. Rabbia, da cui le tasche piene di sassi, che accompagna il disorientamento d’intelligenze improbabili che minano le statue di Bhudda sulle pendici dei colli, che passeggiano coi maiali al guinzaglio dove dovrebbe essere una moschea, che sparano sulla folla festante dei caffè parigini. Tutti figli dello stesso, sconclusionato, vuoto esistenziale: foraggiato dalla miseria e spacciato dai mediatori di massa. Figli legittimi d’un mondo che fa rabbia.
Le pietre d’inciampo, sottratte al tessuto romano, servivano a questo: a mitigare la rabbia. Un luogo di preghiera serve a questo: a contenere la rabbia. Una passeggiata per gli Champs Elysee, col drink in mano, scioglie la rabbia. Ecco, strappare un sospiro per chi non ha sepolcro rischiara i cieli ed apre gli orizzonti: quelli di tutti. Non a caso, la pietra angolare dell’Occidente (l’Iliade) si conclude con l’esequie di Ettore, restituito ai propri cari. I cippi, inchiodati al suolo di via Madonna dei Monti, colmavano l’assenza sia del sepolcro che dei suoi cari. Di più! Chiedevano al passante d’esser lui caro, per il tempo d’un passo, a quelle ombre. Pietre d’inciampo, appunto, messe lì per vacillare un attimo sul sentiero della fede nel denaro, nel successo e nel legittimo godimento: il trittico del credo popolare.
La buona novella, alla quale le pietre d’inciampo devono il nome, fu presentata così da Pietro e Paolo: la parola come inciampo al naturale corso degli eventi. La parola come poesia, allora ed ora più che mai: adesso, che le parole sono pesate sull’informazione, piuttosto che sulla grazia dell’intelletto. Il fastidio per le pietre d’inciampo si misura in altezza.
È il fastidio per l’altezza che scava le fosse di Roma. L’idea che un buon sindaco non sia stato Italo Falcomatà o Giorgio La Pira ma l’amministratore del condominio dietro l’angolo. L’idea che la scuola non sia un esercizio d’intelligenza ma l’avviamento al lavoro servile. L’idea che al bilancio d’uno stato si potrebbe adoperare una buona massaia. L’idea che il riconoscimento della femminilità lieviti su due tacchi a spillo e che un uomo si misuri sul patrimonio. L’idea che la bontà d’animo si riduca alla solvibilità. L’idea che l’anonimia d’un falso account legittimi lo sproloquio.
L’idea che, se esiste un tetto all’umano, questo sia il più basso possibile.