L’uomo sulla Luna

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Ventisette anni or sono, Michael Stipe si chiedeva: “se credi che hanno mandato l’uomo sulla Luna, se credi che non c’è un asso nella manica, allora non c’è rimasto più niente di straordinario”. Vada pure per l’asso nella manica ma l’uomo sulla luna è qualcosa di travalicante: ne ho sentito parlare ma io, personalmente, non ci sono mai stato. Ci sono dei luoghi, di cui si sente parlare, che raccolgono tutti e che nessuno ha mai frequentato: uno di questi è, sicuramente, il cielo stellato.

Il cielo stellato, che qualcuno accompagna alla buona coscienza, è sempre stato un posto affollato che, a differenza della seconda, gode d’un certo ordine. Prima le forze della natura (da cui lo zodiaco), poi gli Dei e da ultimi, in rapida successione, Gesù Cristo, Maometto, la Madonna e tutti i santi: ultimo, in ordine d’arrivo, un timido ingegnere dell’Ohio. Del piccolo passo di Neil Armstrong si sono perse le tracce, chè quello spacciato dalla foto di rito, in realtà, sarebbe quello di Buzz Aldrin: medaglia d’argento sulla Luna. Va da sé che l’impronta di Aldrin non era neppure la sua prima ma, se avete intuito dove intendo andare a parare, alla fine del discorso non griderete allo scandalo: non vi sentirete raggirati e, di converso, lascerete scivolare la cosa oltre il rilevante.

Il cielo stellato, per cui la Luna, è un luogo straordinario: accessibile solo a chi, come l’essere umano, è capace di volgere lo sguardo oltre le spalle. Accessibile, sì, ma allo stesso tempo “travalicante” (o trascendente, se preferite) l’esperienza diretta della moltitudine, che alle stelle continua a guardare senza aver mai avuto il privilegio di farci due passi: presente incluso. Un posto, per dirla in breve, sostenuto dallo sguardo. Non proprio come il gatto di Schrödinger ma contiguo all’amore, alla bellezza, all’intelligenza; “esistenti” condizionati dalla devozione dell’uomo e proprio per questo spediti, tutti e già da tempo, nell’iperuranio: Eros, Afrodite, Athena. Tutti piazzati, a ben donde, oltre la condizione di tangibilità: proprio perché nessuno gli mettesse un piede in faccia!

In tempi più civili di questi, l’impalpabile era protetto dall’interdizione sacrale: il taboo, per intenderci. Oggi, se non lo custodisci oltre un vetro blindato, non lo ricopri di sistemi d’allarme e non ci metti di guardia un paio di sgherri, ci trovi impresso che un tal tizio, in un tal momento della sua miseria, è stato lì: con tanto di dedica al momentaneo batticuore che, magari, troverebbe maggior soddisfazione in ben altra attività. Ora: è questo il significato del piede sulla Luna? Neil Armstrong, o chi per lui, è stato un Italiano in gita?

Credo proprio di no.

L’occupazione del cielo, attività umana per eccellenza, non è certo cominciata con la rincorsa allo spazio: non si concluderà con questa. Già prima, altri hanno diretto la prua verso Ilio e poi ad Occidente; altri sono partiti in cerca del Graal od hanno raccolto i Germani sotto la cupola di San Pietro: uomini straordinari, indecidibili come Colombo, Napoleone, Cesare od Alessandro. Cuspidi di sforzi collettivi, perché quel cielo, che non toccheremo mai, ci raccoglie comunque tutti. Sacri, quanto un timido ingegnere dell’Ohio, che ha sciolto le vele “per arrivare là, dove nessun uomo è mai giunto prima”. Ma c’è di più.

Se ho citato gli altri due generatori simbolici dell’Occidente, non è un caso. La corsa allo spazio, che si conclude con un calcio alla Luna, equivale all’Iliade e l’Odissea, al Ciclo Bretone e Carolingio. L’impronta di Aldrin, attribuita fraudolentemente ad Armstrong, equivale alla discendenza di Alessandro quanto al telo sindonico; che non aggiungono, né tolgono, gradi di perfezione allo straordinario: il peso del trascendente, comunque, si misura coi passi. I primi passi d’un bambino che voleva, per sé, un futuro d’astrofisico. Le prime letture dell’imberbe, che sfogliava i tre volumi della Fondazione. Il mestiere di crescere d’un adolescente, cullato da The Dark Side of the Moon, con gli occhi fissi ai cieli di Giove: cui era diretta l’Odyssey di Kubrick. Della luce che rischiara il mio cammino, senza il piccolo passo di quell’uomo qualsiasi, capirei ben poco: di certo perderei il mio tempo.

Sicuro, come l’Omero del Bronx, che sarà (comunque e sempre) l’uomo ad incamminarsi sulla scala per il cielo.

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