Di Tancredi
Giorni inquieti, di virus e di silenzio. Nel vuoto surreale di queste settimane, la visione di Raggiolo immerso nel bosco invernale, nella prospettiva della Verna e nel suo dipanarsi per strade selciate, è fatto di sguardi mentali, prima che di immagini di luoghi domestici. Appare così nell’animo, prima che nella memoria, il paesaggio delle radici e della nostalgia in cui si consuma una sotterranea e lenta tensione. Una proiezione verso l’altrove, dove si affila il pensiero e si espande lo spirito. Tornano alla mente storie piccole e periferiche, marginali, dalle imprevedibili implicazioni universali. Il silenzio luminoso e azzurro del cielo di marzo inonda il paese di un’atmosfera trattenuta, del timore di ciò che accade in valle, oltre il Ponte di Sotto.
Tempo sospeso, tra visibile e invisibile. Le voci del paese sono sigillate da un silenzio nuovo, diverso dal solito, imposto dal contagio e dal senso di provvisorio che ne deriva. L’incedere lento della vita a Raggiolo, retto da un ritmo segreto e fatale, sembra sparito, occultato alla vista. Quella vitalità insieme torva e tenera, si è inabissata come un fiume carsico. Tutto è al suo posto e nulla si muove. Tutto tace. Più di sempre. Un lontano ruggire di motosega si perde tra le forre del bosco. Il paese sembra disabitato. Bisogna fare di quarantena virtù.
Ci si sente come sfidati dalla vita e ancorati al ritmo del respiro, mentre una primavera incipiente, per contrasto, splende di luce, di viole e della fioritura del pesco giapponese, di chiazze di primule, dei fiori azzurri del rosmarino. La magia di Raggiolo è potente in questa assenza sospesa, specie nello straniamento del meriggio e nelle ore serali, quando il cielo scolora ed è dominato dal lucore del plenilunio di marzo. Le giornate trascorrono in una quiete mistica velata di inquietudine, mentre il fiume scroscia sotto i ponti. L’aria comincia ad essere tiepida e profumata. Inizia la danza delle api. Le piante sono piene di gemme e le alberelle fiorite punteggiano il bosco. La primavera è già qui. Lo sanno i passerotti e i pettirossi che frullano e saltellano sul selciato, i merli che schioccano tra i cespugli dell’orto. Lo sa bene il gatto, sornione e immobile a godersi il sole in posizione zen, gli occhi a fessura e le zampe incrociate. Mentre un altro inverno, infetto e subdolo imperversa in valle.
I pochi abitanti, ruvidi e dal riso greve e onesto, sono chiusi in casa o scomparsi nel bosco e negli orti. Hanno il cuore in allarme e come tutti sognano la banalità a cui si vorrebbe tornare presto. Un virus pernicioso, una Rete ancora assente e i soliti problemi dei paesi di montagna si coniugano in un’unica maledizione, che ha contagiato da tanto tempo l’appennino e di cui non si trova l’antidoto. Ma la vita continua e il cuore di Raggiolo batte all’unisono tra i pochi residenti e i tanti raggiolatti sparsi per il mondo, in mezzo alla pandemia. È un legame importante per avere fiducia e nutrire la speranza, non sentirsi incalzati dalla solitudine, che quando è imposta ferisce lo spirito. Così ci si consola, tanto il virus non arriverà fino a Raggiolo, non supererà l’accerchiamento del bosco.
Qui una natura poco socievole, lussureggiante e magnifica domina un paesaggio spopolato. Tutt’uno con l’indole selvatica dei paesani, nequitosa e verginale a un tempo, ispida e a suo modo ingenua, in una sorta di dannazione giustificante. Il contagio ha fatto chiudere anche la chiesa in questa spietata quaresima che ricorda con inusitata durezza la solitaria dignità della pazienza. Solo il campanile, vigile sopra i tetti, rintocca inesorabile: un riferimento costante e quasi una traccia in quella foresta piena di significati, in quella divina fognatura che è la vita. La Pasqua è ancora lontana.