Era il sette gennaio quando mia madre si è rotta tibia e perone cadendo dalle scale dopo una visita ospedaliera, e ancora siamo dietro a questo incidente. La frattura era scomposta e scomposta gravemente, perché l’osso rompendosi aveva tagliato la carne dall’interno, così, visto che la microcircolazione di mamma non è delle migliori, non ci siamo fatte mancare neanche una necrosi. Le ferite ci hanno impiegato un centinaio di giorni a pensare di rimarginare e intanto mamma seguiva tutta la vicenda del coronavirus, stando seduta sulla sua sedia a rotelle.
Sono stati giorni intensi e fortemente negativi per lei perché accompagnati da notti passate a dormire poco per via dell’enorme impalcatura di ferri che servono a tenere le ossa in linea. Non mi rendo bene conto di quanto mia madre abbia capito della gravità di ciò che ci girava e ci gira intorno mentre la sua gamba provava a guarire, perché ogni giovedì, giorno di medicazioni presso il nostro ospedale casentinese, mentre io le coprivo le mani coi guanti e le mettevo la mascherina, lei assumeva un’aria, come per dire: – esagerata! –
Mentre sto scrivendo questo articolo è proprio giovedì e stamani dopo gli ennesimi raggi, l’ortopedico ha ritenuto che fossimo arrivati al capolinea e che fra qualche giorno il fissatore esterno potrà essere finalmente rimosso. Non sto a raccontarvi la gioia di mia mamma nell’udire le parole del medico, che la congedavano dalla sua ferraglia, ma le lacrime le rigavano il volto mentre con gli occhi mi diceva: – hai visto cocca? Finalmente anche questa vicenda si sta per concludere. –
Sì, anche questo paragrafo di vita che una donna di settantadue anni ha vissuto contemporaneamente col ferro nella gamba e il virus nel cuore e nella testa, si sta proprio per concludere, anche se ora dovremo reimparare a camminare e tutto ciò che richiede il caso specifico.
Ma questo paragrafo di vita non può concludersi senza che io e mia madre facciamo i nostri bei ringraziamenti. Al di là che abbiamo avuto tutto il tempo di fare affezionare tutti gli ortopedici incontrati in questi mesi, e che vogliamo ringraziare tutti, ma è di un’infermiera che vogliamo fare il nome, la signora Serena Checcacci, caposala del gabinetto di ortopedia di Bibbiena.
Serena si è presa così tanta cura della gamba di mia madre che fra loro c’è stata da subito una sorta di sfida. E più che la gamba con le sue ferite procurava pensieri e disagi e più che Serena ci si metteva d’impegno apportandole tutte le cure del caso. Vi posso assicurare che poche volte ho guardato così tanto impegno, era diventato un duello, tra infezione e infermiera. Ho visto Serena togliere minuscoli pezzettini di carne inutile con fare certosino, con immensa attenzione anche e soprattutto per la sterilità di tutti gli attrezzi usati.
Qualcuno dirà certamente: – beh, non ha fatto altro che il suo dovere! – Verissimo, ma una cosa è il dovere, e una cosa è l’amore. Serena ha così amato il suo lavoro e la gamba di mia madre, che mi sento di attribuire a lei la perfetta guarigione di quest’ultima. Inoltre, vi posso assicurare che la faccenda non era messa bene per niente.
Per cui, in un momento in cui il covid 19 richiedeva tutta l’attenzione nel campo della medicina, nel nostro ospedale, c’era un’infermiera che combatteva anche lei col suo mostro, quello della necrosi, e con tutto l’amore e la professionalità, lo ha sconfitto e messo a tacere.
Io e mia madre ringraziamo fortemente questa donna che si è tanto presa cura di noi, amando il suo lavoro.
Grazie Serena Checcacci
Un abbraccio anche all’infermiera Daniela Cerofolini, che per due volte ha sostituito Serena in questa lunga vicenda.