Uccisa da un uomo

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Sono sicuro che, sfogliando Anna Karenina, ve lo siete chiesto anche voi: Anna Karenina è stata uccisa da un raptus?

Lev Tolstoj, che di tutti è il più informato sui fatti, assicura che Anna Karenina è stata rovinata dalla propria passione per un uomo, Conte, chiamato Vronskij: un essere umano, per altro, affatto meritevole dell’affetto di Anna. Ciò non di meno, sostiene Tolstoj, nessuno ha spinto Anna sulle rotaie: Anna Karenina si è suicidata al cospetto della propria rovina. Un gesto inconsulto che, secondo le parole dell’autore, la stessa suicida provvede a rinnegare nell’istante che la separa dall’irreparabile: “Mio Dio! che cosa ho fatto!”. Per la vita di Anna Karenina, sospesa sui binari nell’incombenza del treno, non c’è più niente da fare ma il conclamato pentimento (“Mio Dio! Che cosa ho fatto!”) vale, almeno, la compassione dell’autore: la stessa che prova Dante al cospetto di Paolo e Francesca.

Per chi conosce la storia, il precipizio su cui si dirige Anna Karenina è il dramma della gelosia. La gelosia, almeno nel caso di Anna Karenina, soverchia la ragione della protagonista che, nel terrore di perdere un amore che per lei è tutto, finisce per perdere quello e la vita. Tolstoj è abilissimo nel farci percorrere lo stato confusionale che s’insinua, prima, e determina, poi, la mente di Anna: entro un processo lento ed indaginoso che, se non fosse per il narrato dell’interiorità disseminato nel libro, ai più sarebbe completamente sfuggito. I più, sprovvisti del vissuto della protagonista (ovvero, come nel caso d’un personaggio letterario, della narrazione intimista di Tolstoj) si destano solo nell’accadere del parossismo violento: concludendo che la suicida ha agito in preda ad un eccesso momentaneo, un raptus.

Capite bene che, arrovellarsi se esista o meno una cosa chiamata raptus, scalda solo i cuori dei più sprovveduti: quelli che si rimettono ad una T.A.C. per derimere questioni superiori. La questione superiore non riguarda il sovvertimento dell’essere in preda alla passione (cosa piuttosto ovvia dell’umano) ma la nostra capacità di giudizio. Anna Karenina che si toglie la vita, Achille che nega la sepoltura ad Ettore, Medea che uccide la prole, Federico degli Alberighi che si rovina per amore, e via, via (via, via, via, via …) discorrendo, sono tutti stereotipi che illuminano un assunto fondamentale: la fragilità dell’esperienza umana. Nessun essere ragionevole, guardando Anna, Achille, Medea, Federico (e chi più ne ha più ne metta) si risolve nel dargli ragione: l’esatto contrario! Persino l’eroina di questo articolo, Anna Karenina, si rende perfettamente conto del proprio eccesso e di come, ahimè, sia ormai irrimediabile. Tuttavia, al lettore che da quelle passioni non è rapito, si richiede una qualche altezza di giudizio: un’altezza chiamata compassione (C-O-M-P-A-S-S-I-O-N-E).

Di tanta altezza, ad esempio, non sono richiesti i giudici istituiti nei tribunali che, lungi dal giudicare il suicida, sarebbero stati chiamati in causa se l’eccesso emotivo della protagonista si fosse scagliato verso Vronskij. Che cosa avrebbero dovuto concludere, secondo voi: che il caso di Anna Karenina non è un parossismo violento? Il motivo che ha indotto la moglie di Karenin a gettarsi sotto un treno è stata la noia? Il denaro? Cerchiamo d’esser seri. Il movente che anima Anna Karenina è la gelosia che, qualora avesse rivolto la violenza del sentimento verso il concupito, avrebbe dato luogo ad un O-M-I-C-I-D-I-O passionale. Nessuno, se Vronskij ne fosse perito, avrebbe mai chiesto d’aggravare la pena per “maschicidio”.

Semmai, visto che Vronskij per sua natura lo infila dove capita, l’ira funesta di Anna Karenina sarebbe da considerarsi provocata dall’essere “maschio” della vittima: “maschicidio”, sì, ma come attenuante! L’Art. 62 n° 2 rubrica, fra le circostanze attenuanti, lo “stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”: non dico d’istituire l’attenuante specifica del “maschicidio” ma, almeno, di applicare ad Anna Karenina le attenuanti generiche.

No?

Per le attiviste del Rebel Network sembrerebbe di no: anche se a sessi rovesciati. In una lettera all’Odine dei Giornalisti, le attiviste chiedono “una potente azione di moral suasion affinché nel dare le notizie relative ai femminicidi si abbandonino espressioni fuorvianti e sminuenti della gravità del reato quali “delitto passionale”, “raptus”, “pista sentimentale”, “gelosia”. Questa terminologia induce di fatto a giustificare azioni criminali e violenze reiterate” (Sic!). Poi, prese dalla missione moralizzatrice della gender equality, provvedono una vignetta che io ho apprezzato come cartellone disseminato per le vie di Reggio Calabria.

Il cartellone, in pedice a questo articolo, ritrae un gruppo di sole donne a pugni levati che sorreggono un epiteto eloquente: “uccisa da un uomo”. L’idea moralizzatrice, si capisce, sarebbe quella promessa nel corsivo della lettera: eliminare il riferimento al delitto passionale (raptus) quando si tratta (solo) di vittime femminili. Senza scomodare la moral suasion, basta la grammatica italiana per capire che un verbo coniugato al femminile non può che riferirsi ad una donna. Scrivere che “Mario è stata uccisa da un uomo”, converrete con me, presuppone la retrocessione in prima elementare: cosa che, non credo, spetti all’estensore del trafiletto. Il difetto di concordanza fra il verbo e l’ipotetico soggetto, non solo è voluto ma si chiarisce col complemento d’agente: “da un uomo”.

Ciò a dire, con evidente cortocircuito sinaptico, che tutte le vittime di delitti passionali sono donne e che tutti i delitti passionali riguardano gli uomini. Per citare un padre illustre di questo modo di ragionare citerò Vittorio Feltri, secondo il quale “non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti i terroristi sono musulmani”: in questo senso, ponendosi in tono minore (“non tutti”) rispetto allo slogan delle femministe. L’effetto, per altro, è lo stesso: quello d’invertire l’onere della prova al cospetto d’una presunzione. Un pregiudizio, nel caso delle attiviste, squisitamente sessista: alla faccia della moral suasion!

Io credo, invece, che la moral suasion dovrebbe osteggiare proprio i pregiudizi quanto le presunzioni. Costruire un territorio abitabile da qualunque essere umano (il c.d. ecumene) e su questo piantare gli avvisi ai naviganti. Sulle passioni, ad esempio, dovremmo provvedere ad avvertire sulla ferocia dei sentimenti: tanto Anna, quanto Mario e prescindendo che questi siano bianchi, verdi, di un certo credo, inclinati a destra o da un’altra parte. Ammonirli che quel trasporto che chiamano “entusiasmo” (mania, direbbe Platone) può “rapire il giudizio” (raptus) e renderli “prigionieri” (captivus da cui l’italiano “cattivo”); perché i sentimenti sono tanto la traccia della nostra ferinità quanto il brivido della vita: brivido al quale non è dato rinunciare.

Spiegare che la gelosia, ad esempio, non è la conseguenza necessaria dell’amore ma la sua deriva. Assicurare che è umano essere gelosi ma che la cosa rimane, comunque, un pessimo sentire: al quale si può rimediare. Vigilare affinché non produca l’irreparabile: qualunque cosa questo sia. Irreparabile, ad esempio, è il suicidio di Anna Karenina quanto il parricidio di Medea, di Clitennestra o di Eteocle come Edipo; cose che, ecco il punto, non succedono solo a Tebe, Argo o Micene: né sono successe una volta sola e non certo per mano “solo” maschile. Provvedere una moral suasion non corrisponde ad un manifesto impresso con verboten juden! Più efficace, fermo restante che siamo tutti gente assennata ed impegnata ad evitare l’irreparabile, stimolare la compassione anche per Dracula, Frankenstein o Gwynplaine che sono mostri solo in qualche baracconata di Hollywood: altro che moral suasion!

Insomma: una moral suasion che difetta di compassione manca dell’umano.

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