Poter raccontare qualcosa di Alessandra Aricò mi rende orgogliosa. L’ho potuta ammirare sotto tante forme e in ognuna di queste vi ho incontrato qualcosa di speciale, perché mette tutta l’anima nelle cose che svolge. Alessandra chiede tanto a sé stessa, ma sa che può farlo perché è un pozzo inesauribile di idee e voglia di fare. Da lei c’è sempre da imparare, perché difficilmente lascia qualcosa al caso, e non si piega facilmente alla fatica.
Alessandra è una regista attenta e minuziosa, lascia crescere i suoi attori dando loro ampio raggio di espressione, salvaguardandone l’anima. E’ un’attrice eccellente, perché entra nel personaggio e non lo molla neanche durante l’applauso finale. Niente può intaccarla quando recita in quanto mette a tacere sé stessa per poi sprigionare quella sua parte recitante che le permette di essere chiunque.
Stare ad ascoltare Alessandra è un qualcosa di assolutamente affascinante. Con la sua spiccata cultura riesce a portarti lontano, dentro a vite passate o a storie mitologiche che lo diventano ancor di più se raccontate da lei. Quando nel gruppo di lettura da lei diretto, dal titolo di “A vivavoce” intraprendiamo un argomento, capita spesso di trovarsi come “imbambolati”, completamente presi da ciò che questa donna, col suo fascino condito da tanto sapere, ci racconta. Ed è bello assaporare il silenzio “ecoso” del teatro, interrotto soltanto dalla sua voce e dalla nostra voglia di abbeverarci da lei.
Oserei dire che la Aricò non rientra per niente nella normalità, anzi, cavalca l’eccellenza, e il bello è che lei non lo sa, lei non si rende conto di quanto possa essere speciale, capace, dolorosamente acculturata. Alessandra ha il potere di donarti il suo sapere, senza assolutamente farti provare la noia, oppure il disagio per non essere a conoscenza di uno specifico argomento, è una di quelle insegnanti che ti fanno aprire la bocca quando inizia a parlare e te la fanno chiudere un’oretta dopo che ha finito la lezione.
Avevo in mente di raccontare qualcosa di Alessandra da quando ho iniziato questa mia nuova rubrica, appunto, “Voci dal Casentino”, quel Casentino di cui lei è figlia, poi, anche un mio amico e compagno di corso, me lo ha suggerito. Così, sono voluta partire da un’Alessandra traduttrice, e siccome è una donna assolutamente professionale, vi farò dono delle sue parole, senza alcun inquinamento da parte mia.
-La traduzione è un’attività non molto conosciuta, di cui peraltro tutti beneficiamo, quindi racconterò molto volentieri la mia esperienza: Da un bel po’ di tempo al lavoro sul teatro affianco quello sulla scrittura, sia creando testi miei, che ricreando testi di altri, ad esempio: “108 Vallucciole, un’orazione civile” oppure “Le Baccanti di Euripide” o la “Tempesta di Shakespeare” e la traduzione letteraria.
Da sempre sono interessata a qualunque espressione di comunicazione umana, ad ogni tipo di linguaggio, artistico e non, e quindi anche alle lingue straniere.
Mi sono accorta di avere una certa predisposizione quando da piccola, essendo figlia di padre siciliano, mi veniva facile intercettare e tradurre i colloqui che avvenivano nella casa dei nonni, soprattutto, mi divertivo da matti a trasformare in italiano tutte quelle frasi parlate in dialetto.
Dopo il liceo sono andata all’università di Firenze, dove ho studiato francese e portoghese, lingua e letteratura. Questa mia scelta venne non poco criticata da alcuni, facendo la similitudine che ciò che avevo scelto di fare si trovasse in basso almeno quanto una buca, sì, praticamente ciò che mi affascinava fare, per alcuni rappresentava il fondo.
Ma io ero convinta della mia scelta, e pensavo proprio al fatto che anche i fiori partono da una piccola buca, nella quale se si deposita un seme, e che questo poi si trasforma in un fiore, o in un albero, comunque qualcosa che nasce e poi cresce. Non mi pareva roba da poco! In quel periodo ho avuto la fortuna di aver incontrato insegnanti di una eccellenza unica. La formazione che ho ricevuto non ha risparmiato nemmeno una piccola parte di me, ma li ricordo con grande stima. Studiavo letteratura e facevo tanta traduzione letteraria per la quale ho sempre provato una forte passione. Anche le versioni di Latino mi entusiasmavano, allora come adesso.
Erano belli anche i disaccordi e le discussioni coi compagni di studio su come tradurre un passaggio, ma anche quello faceva parte di un gioco affascinante. Sin da allora mi sono trovata a tradurre per il mio maestro di teatro, per amici e conoscenti, insomma ogni volta che ne avevo l’opportunità, la coglievo per continuare ad allenarmi. Poi, col tempo ho iniziato a farlo professionalmente.
Ho tradotto sottotitoli di festival importanti, film bellissimi firmati da autori di alto rilievo. Tradurre è una sfida perché ci sono dei parametri da rispettare e si deve tener conto del tempo necessario utile per leggerli. Pur non avendo fatto studi specifici di interpretariato, mi è capitato di lavorare come interprete, spinta e sostenuta da amiche interpreti bravissime che mi fornivano strumenti adatti. Ho tradotto dei romanzi, e qualche testo teatrale per i miei allievi.
Molte delle mie traduzioni sono finite in televisione, e io rapita, e in barba alla mia snobistica diffidenza nei confronti del mezzo, stavo al di là dello schermo a tremare come una foglia nel vedere il mio “librino” in televisione, magari nelle mani di Fazio.
Nei mesi scorsi ho tradotto Lettere inedite di Maria Antonietta, a cura della studiosa Catriona Seth, adesso invece sto lavorando sulla seconda parte delle memorie di Jane Birkin, Post scriptum che uscirà in autunno e che rappresenterà un’altra bella sfida.
Non è facile coniugare all’interno della mia vita il lavoro legato al teatro e alla traduzione, ma è un qualcosa che amo fare, si tratta di quell’amore per i linguaggi che è come un filo rosso che lega le diverse pratiche ed esperienze, anche se a volte far tornare il tutto fa diventare quel filo rosso un vero fil rouge di giochi senza frontiere.
La traduzione non è rassicurante, né confortevole, fa sudare sette camicie e non fa arricchire, ma è appassionante e coinvolgente, a tratti persino entusiasmante. Certamente è un po’ rischiosa perché procura la possibilità di commettere errori, che è anche cosa umana, ma oltre modo fastidiosa. Ti fa stare ore ed ore incollato al computer, finché la cervicale decide di scendere sul piede di guerra, e come si usa dire in gergo scolastico, è come “la chiusa” in vista di un esame; per quanto si cerchi di gestire le tempistiche con metodo e disciplina, si finisce sempre di entrare in un universo parallelo, dove le parole trottano in testa persino durante il sonno.
Comunque il lavoro di traduzione mi ha dato un grande aiuto, mi ha fatto conoscere a fondo la lingua che ho studiato, ma anche la lingua che parlo tutti i giorni, mettendole in relazione, facendole litigare e amoreggiare, regalandomi strumenti di comprensione e capacità di assumere diversi punti di vista. Mi ha aiutata a leggere e scrivere, mi ha aiutata ad imparare.
La tecnologia in futuro renderà obsolete le traduzioni; mi piace però pensare che le persone continueranno ad interessarsi agli altri, a come parlano, scrivono, comunicano, si esprimono e magari, quando la parola si fa arte, ci sarà ancora bisogno che qualcuno la sappia portare, traslare, lasciandosi da quella attraversare con rispetto, pazienza ed amore.
Ecco, questo è un piccolo assaggio, purtroppo tagliato e ritagliato della personalità di Alessandra Aricò, sarebbe bello poter scrivere un libro su questa donna che è così perché così si è presentata alla vita, col suo enorme bagaglio di ampia conoscenza, del quale ci fa dono molto volentieri. Credo che tornerò ad intervistarla per altre magiche doti che conserva all’interno di sé, perché lei è una delle “Voci dal Casentino” che sto più volentieri ad ascoltare!
Grazie Alessandra